Liberare il mondo dall’incubo della minaccia atomica

Osservatore Romano

cq5dam.thumbnail.cropped.500.281.jpeg

La Giornata internazionale per l’eliminazione totale delle armi nucleari

26 settembre 2020

«L’umanità ha inventato la bomba atomica, ma nessun topo al mondo costruirebbe mai una trappola per topi»: attribuita ad Albert Einstein, la frase ben sintetizza, purtroppo, la contraddizione di fondo del comportamento umano sulla questione degli armamenti. A differenza dei topi, abbiamo esteso questo non senso su scala planetaria, fino al punto da aver sviluppato una terribile trappola potenzialmente letale per tutti noi.

Una trappola costituita da circa 13.500 ordigni atomici, tanti sono presenti sul nostro pianeta, capaci di distruggere la vita sulla Terra, non una, ma più volte. Non solo per non trascurare una situazione tanto rischiosa, ma per ricordare l’opportunità di intervenire in quella che dovrebbe essere per popoli e governi una vera priorità, le Nazioni Unite — con la risoluzione del 5 dicembre del 2013 — hanno istituito la Giornata internazionale per l’eliminazione totale delle armi nucleari. Il disarmo nucleare, del resto, è da sempre un obiettivo fondamentale dell’Agenzia internazionale: un punto fermo oggi ribadito con l’esortazione alle nazioni ad «adottare con urgenza una Convenzione globale sulle armi nucleari con la finalità di proibire possesso, sviluppo, produzione, acquisizione, uso di armi nucleari e di provvedere alla totale distruzione di quelle esistenti».

È qui contenuta una netta presa di posizione, ma anche una puntuale indicazione delle politiche da adottare dai singoli Stati. A segnare la rotta può e deve contribuire la comunità scientifica: se la fisica, infatti, è stata protagonista dell’invenzione dell’atomica, analogamente ora è chiamata ad un ruolo rilevante per liberare il mondo dall’incubo della minaccia e degli ordigni nucleari. «La corsa agli armamenti atomici comincia con una breve lettera, due paginette scarse, destinate, però, a segnare i destini del mondo» ricorda Piero Martin, professore ordinario di fisica sperimentale all’Università di Padova e coordinatore di importanti progetti internazionali, riferendosi alla missiva indirizzata al presidente americano F. D. Roosevelt il 2 agosto del 1939 da Albert Einstein, nella quale, con stile asciutto e privo di enfasi, aggiornava il presidente su recenti risultati di fisica nucleare, opera anche del celebre scienziato Enrico Fermi, e su come essi facessero presagire l’eventualità di trasformare l’uranio in una sorgente di energia e, addirittura, in una bomba. «Einstein metteva in guardia Roosevelt sulla possibilità che anche la Germania nazista potesse sviluppare un simile ordigno e lo esortava a dare avvio ad un programma di ricerca sulla fissione nucleare: cosa che accadde e che negli anni successivi avrebbe originato il Progetto Manhattan, sfociato poi nel tragico epilogo delle due esplosioni di Hiroshima e Nakasaki» spiega Martin, sottolineando che a quel progetto lavorarono alcune tra le menti più brillanti dell’epoca.

Un’impresa epocale che comportò un gigantesco sforzo collettivo e coinvolse 120 mila persone. Anche finanziariamente la portata dell’operazione fu enorme: investimenti per circa due miliardi di dollari, oggi rivalutabili in oltre venti: «Il Progetto Manhattan fu tra i maggiori scientifici e tecnologici dell’era moderna. Ebbe come esito la fine della ii guerra mondiale, ma anche conseguenze tragiche per la popolazione civile giapponese e, da lì, drammatiche per l’intera umanità — continua lo scienziato padovano — conseguenze di cui i fisici furono subito consapevoli». Già durante la guerra, come noto, si sollevarono molti interrogativi etici, e ancor più dopo, quando fu chiaro cosa si era ottenuto: emblematico come si espresse uno dei maggiori responsabili del secolo scorso: «I fisici hanno conosciuto il peccato, e questo non si potrà più dimenticare» disse Oppenheimer, direttore scientifico del progetto.

Lo stesso Einstein, chiuso il conflitto mondiale, ammise la convinzione della comunità scientifica che la Germania stesse progettando un’arma nucleare e che sarebbe riuscita nel tentativo. Anni più tardi confessò: «Se avessi saputo che i tedeschi non sarebbero riusciti a realizzare una bomba atomica, non avrei mosso un dito». Ma, come risaputo, a quel punto la storia era già stata scritta e il corso degli eventi avrebbe intrapreso, anche grazie alla scienza, una piega, in quegli anni, imprevedibile.

Certo, la consapevolezza del potenziale distruttivo dell’atomica portò a forti pronunciamenti per la messa al bando delle armi nucleari, a cominciare dal presidente Usa Eisenhower, che — nel famoso discorso Atomi di pace, tenuto alle Nazioni Unite nel 1953 — esortò l’Assemblea affinché «la meravigliosa inventiva dell’umanità (le scoperte di fisica nucleare) fossero consacrate alla sua vita e non alla sua morte». E Papa Giovanni XXIII fece esplicito riferimento alla bomba atomica nell’Enciclica Pacem in Terris, ricordando «giustizia, saggezza ed umanità domandano che venga arrestata la corsa agli armamenti, si riducano simultaneamente e reciprocamente gli armamenti già esistenti e si mettano al bando le armi nucleari».

Al contrario, non solo la corsa agli armamenti non si arrestò, ma aumentò fino all’escalation della proliferazione dei test: «Questi continuarono in atmosfera fino al 1962 con ricadute drammatiche sull’inquinamento radioattivo, di cui paghiamo ancora oggi gli strascichi e che, solo nel 1996, con il trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari furono completamente proibiti» sottolinea Martin, richiamando il provvedimento adottato dall’Assemblea generale dell’Onu, ma tecnicamente ancora non in vigore. Vale la pena un triste riepilogo sullo status quo, perché ancora, spesso, si sottovaluta il potenziale distruttivo: all’inizio del 2020 circa 13.400 ordigni nucleari risultano ancora giacenti negli arsenali, di cui ben 3.700 operativi, ovvero installati su missili e pronti all’uso. Il 90 per cento di queste bombe appartengono a Usa e Russia, ma almeno altri sette Paesi dispongono di un arsenale nucleare, senza dimenticare gli enormi rischi connessi alla dispersione di parte degli ordigni dell’ex Urss: «Cosa accadrebbe se finissero nelle mani di gruppi terroristici?» si domanda Martin, concludendo che «come diceva Oppenheimer la conoscenza sull’atomica, come tutta l’esperienza umana, non può essere cancellata: sappiamo produrre le armi nucleari e il binario della guerra non può essere deragliato, tuttavia, come auspicato nella Giornata internazionale per l’eliminazione totale delle armi nucleari, siamo in tempo per cambiare rotta, per avviarci, con decisione, uniti sotto la bandiera di un mondo in disarmo, verso un futuro di pace». Ed è a questo che la comunità scientifica è chiamata con responsabilità: «Innanzitutto come cittadini del mondo dobbiamo fare nostre le parole di Papa Francesco, che, in occasione del settantacinquesimo anniversario di Hiroshima ribadì che l’uso dell’energia atomica per scopi bellici è immorale, così come lo è il possesso di armi nucleari» ricorda Martin.

Parole che coerentemente devono tradursi in scelte coraggiose, se non si vuole alimentare una scienza e una tecnologia finalizzate a ordigni e macchine da guerra sempre più sofisticate, incontrollabili e dagli esiti funesti. Parallelamente la comunità scientifica è chiamata a mettere il proprio sapere al servizio di metodologie e tecniche sempre più evolute mirate al controllo della proliferazione nucleare: ispezione e controllo preventivo sono, infatti, fondamentali a scongiurare la proliferazione e, in questo, il contributo della fisica è imprescindibile. Abbiamo, ad esempio, assistito all’importanza del ruolo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica dell’Onu in occasione della crisi nucleare iraniana: il che dimostra che scienza e politica devono essere intransigenti sui controlli. «Dobbiamo, infine, con il nostro operato farci portavoce di un messaggio inequivocabile che gridi al mondo quanto la scienza può essere utile per la pace, per uno sviluppo sostenibile, per una rete di relazioni che lavori nel rispetto dell’ambiente e per sconfiggere la piaga di povertà e disuguaglianza» conclude il fisico. Quante risorse potrebbero essere, del resto, liberate per questi scopi, interrompendo la spesa in armamenti?

di Silvia Camisasca