L’euro a lezione di storia

Tra il 1865 e il 1926 Francia, Italia, Belgio, Svizzera e Grecia
costituirono l’Unione monetaria latina

L’euro a lezione di storia

di Paolo Pecorari

Le travagliate vicende dell’Unione monetaria latina – costituitasi nel 1865 tra Italia, Francia, Svizzera e Belgio (nel 1868 aderì anche la Grecia) e durata fino al 1926 – aiutano a comprendere le gravi difficoltà che l’Europa incontra oggi nel difendere l’euro di fronte agli attacchi della speculazione finanziaria internazionale e alla deregulation dei mercati. Le analisi sulla crisi economica in atto, sulle sue motivazioni, sui possibili rimedi, come pure sui problemi che ne discendono, si moltiplicano, ma perlopiù risultano ancorate alle scansioni della cronaca, mentre trascurano il fatto che, mutatis mutandis, situazioni in qualche misura analoghe hanno già segnato il nostro passato: analoghe, beninteso, nel senso delle contiguità relazionali con le difficoltà che nel secolo xix alcuni Stati europei incontrarono nell’aderire a un’area monetaria comune. Tali Paesi assunsero allora un’ottica di tendenziale stabilità dei rapporti di cambio fra i metalli costituenti le rispettive monete, ma senza prima aver sciolto i nodi strutturali del loro sviluppo e senza aver elaborato efficaci meccanismi di coordinamento tra le loro politiche monetarie e fiscali, onde renderle funzionali all’equilibrio delle bilance dei pagamenti.
La vicenda dell’Unione monetaria latina dimostra che non basta un’unione monetaria più o meno ben congegnata per fare un’effettiva unione economica. Non basta perché occorre rendere compatibili i vari mercati del lavoro, le relative legislazioni, le politiche fiscali, i sistemi produttivi. Ciò va realizzato preliminarmente (o almeno contestualmente) sotto la spinta di una tensione etica e di un’intelligenza politica capaci di trascendere le logiche individualistiche e di perseguire gli interessi generali. Dimostra inoltre la necessità di sostenere i costi della spesa pubblica secondo criteri di equità effettivamente praticata, ossia non solo proclamata ma divenuta atto, donde l’ineludibilità di provvedimenti capaci di incentivare la crescita, ma insieme pure di distribuire la ricchezza, come ad esempio il diverso trattamento fiscale dei redditi da lavoro rispetto a quelli da capitale. Dimostra infine l’utilità di ispirarsi a una versione virtuosa, non speculativa, del capitalismo contemporaneo: virtuosa in quanto poggiante su un equilibrio della domanda aggregata supportato da un adeguato livello di consumi e reso possibile da un altrettanto adeguato reddito corrente (da salari, stipendi e pensioni), nonché da un elevato livello di investimenti privati e da un volume di spesa governativa sufficiente a rafforzare le infrastrutture materiali, a fornire i servizi essenziali, a creare nuove conoscenze, a valorizzare il capitale umano.

(©L’Osservatore Romano 17-18 agosto 2012)