Lettere esplose e veli di terra per riscoprire la forza dei simboli

«En signe de vie», questo è l’invito programmatico che il museo d’arte sacra Hiéron a Paray-le-Monial, in Francia, propone al visitatore di una mostra — visitabile fino al 30 dicembre —dedicata a tre artisti importanti dell’arte contemporanea: Thomas Gleb, Georges Jeanclos, Max Wechsler. Le categorie classiche della retorica trasmesse da sant’Agostino all’occidente latino — quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo, quandoGeorges Jeanclos, «Le dormeur» (1973, copyright Jean-Pierre Gobillot)possono aiutare a cogliere l’equivalenza esistente tra le immagini dell’arte contemporanea e il “segno di vita”. Quis (“chi”)? Gli artisti appena citati hanno come comune denominatore l‘appartenenza culturale all’ebraismo e una gioventù segnata dall’obbligo di confrontarsi con gli orrori della seconda guerra mondiale.

Thomas Gleb (1912-1991) nasce in Polonia con il nome di Yehouda Chaïm Kalman, fugge a Parigi nel 1932 e diviene “Thomas Gleb”, cambiando patronimico: «Thomas, perché non ho creduto, Gleb, è un nome». Quando è mezzanotte nella storia, Georges Jeanclos (1933-1997) — nato Jeankelowitsch — fugge il regime di Vichy con la sua famiglia e si nasconde nei boschi per sottrarsi all’arresto. Originario di Berlino, Max Wechsler (nato nel 1925) arriva in Francia nel 1939. Dopo il 1945, tutti intraprendono una carriera internazionale che li porta a esporre nei musei più prestigiosi d’Europa, e diventano artisti rinomati.

Quid – “Cosa”? Dominique Dendraël, direttrice del Museo del Hiéron e curatrice della mostra, ha scelto immagini contemporanee come altrettanti “segni di vita”. È così che ha deciso di inserire nelle collezioni del museo Le Signe di Thomas Gleb, il 6 marzo 2012. L’opera concepita nel 1979 per la parete di fondo del coro della cappella dell’antico Carmelo di Niort, su commissione delle religiose, è un segno a tre braccia, a forma di Y, che permette di leggere anche diverse altre opere esposte (Sans titre, 1976, Diptyque, 1968).

È questo stesso segno di vita che la curatrice riconosce anche nelle opere di terracotta e bronzo di Georges Jeanclos, che colloca nelle gallerie alte del museo. Tra queste gli emblematici Dormeur (1977) e Kamakura (senza data), che hanno rappresentato altrettante tappe salienti e degne di nota nel lavoro dell’artista. Il segno di vita costituisce anche l’essenza dell’opera di Max Wechsler: lettere che ricoprono lo spazio dell’opera, Rectangle noir dans le noir (1966) e A peine visible (2005).

Quibus auxiliis – “con quali metodi”? Thomas Gleb lavora la lana bianca, elemento di base dei suoi arazzi dove appare anche il rosso. Le signe è un’opera monumentale che, aprendo l’intonaco bianco del muro, fa fuoriuscire una colata rossa, suturata con vecchie cordicelle chieste alle religiose. Ritmicità del bianco e del rosso. Dopo averla per un tempo abbandonata, Georges Jeanclos si è rimesso a lavorare la terracotta, quando un giorno il gesto violento della battitura della terra cotta su un piano inclinato ha fatto nascere un “drappo di terra”, una “coperta”. L’artista spiega semplicemente: «Riesco a lavorare un’opera senza toccarla con lanci successivi di terra». La figura si riveste così di veli di terra sovrapposti, uno ad uno, per proiezione. Ritmicità del lancio di terra, per alcune opere subito fissato nel bronzo. Max Wechsler utilizza la lettera «per il suo aspetto tipografico, la sua forma, la sua inclinazione, la sua densità», in particolare le lettere dell’alfabeto ebraico. La lettera va subito in frantumi. Procede quindi alla sua trasformazione, la fa esplodere utilizzandone le particelle, il contorno, il tratto, la curvatura, trasformandola in segni disposti poi sul foglio di carta. Ritmicità della lettera.

Quomodo – “come”? Ogni artista testimonia in modo semplice il moto infinito che l’ha fatto giungere alla soglia della creazione. Nelle sue note personali, Thomas Gleb scrive: «Traccio un segno a tre braccia senza volerlo. Un’espressione libera. Esso entra nella vita. Mi è sconosciuto. Vivente non è fisso». Scrive ancora: «Una presenza misteriosa abita in noi, si manifesta attraverso di noi solo se accantoniamo il nostro sapere, il nostro potere, la nostra volontà, che non sono altro che limiti, e orgoglio. E se sappiamo creare il vuoto».

A proposito del Dormeur, Georges Jeanclos racconta: «Mi ha sorpreso, mi è venuto incontro». L’artista ha lasciato venire l’immagine: «Non ci ho pensato, non ho deciso». A proposito del suo gesto, Max Wechsler afferma che «altre rappresentazioni appaiono; la lettera diviene il suo Altro».

Cur – “perché”? La risposta alla domanda è inclusa nell’annuncio programmatico della mostra: per entrare nello spazio-tempo del moto vivente. È lui che viene a noi. Ciò che vediamo è ciò che ci guarda. L’opera è per così dire “in potenza”, nasce dal vuoto per Thomas Gleb, dal coniugarsi della velocità del lancio con la vita stessa della terra per Georges Jeanclos, dalla vita della sparizione della lettera, “che rifiuta la sua scomparsa”, in un grande movimento paradossale per Max Wechsler. Questo atteggiamento situa inoltre ogni gesto artistico nella linea delle immagini propriamente dette “acheiropoietiche” ossia, secondo l’etimologia greca della parola, “non fatte da mano umana”. Le Véronique sono, per esempio, fatte in questo modo.

Le leggende si uniscono così alla visione fenomenologica fondamentale dell’arte nel Medioevo. In effetti gli artisti medievali traevano la loro teoria soprattutto dalla genesi delle forme — ciò che fa sì che una forma pittorica si distacchi dalla superficie — e anche dalla Fisica di Aristotele. Vedevano l’incarnazione in questa ottica. Così è veramente “in segno di vita” che l’arte contemporanea trova posto nel museo d’arte sacra. La parola “segno” ricapitola innanzitutto l’intera storia occidentale delle immagini della quale la cultura della fine del XX secolo è la depositaria. Se ci si ricolloca nel quadro dell’economia della Creazione così come sant’Agostino l’ha trasmessa all’Occidente, tutto l’universo di fatto si presenta come il dito della potenza divina.

Essendo Dio l’unica res (realtà), tutto il resto è signum (segno). I segni mostrano così la traccia della presenza divina nella misura in cui partecipano alla gloria del Creatore. Oltre a questi signa naturalia, sant’Agostino distingue i signa data, ossia i “segni istituiti” dall’uomo in modo arbitrario.

Tutto il Medioevo si è inserito in questo vasto sistema di creazione di segni il cui unico fine è di significare o di descrivere il mondo divino rivelato all’uomo. In questa macchina del senso, le immagini materiali sono segni creati dall’uomo per far vedere l’invisibile e manifestare una realtà sacra, continuando Dio a rivelarsi in essa. Nel Medioevo le immagini dipinte o scolpite trasmettono così l’immagine di Dio perché ne sono il segno. Esse ne comprendono la realtà per similitudine. Fanno vedere l’invisibile, non come oggetti, ma perché intrattengono con il loro modello divino una relazione di somiglianza.

La teologia medievale non smetterà mai di ricordare a tale riguardo che se l’immagine manifesta una somiglianza con la realtà sacra che essa significa, non contiene però in alcun caso tale realtà. È dunque proprio la parola “vita” che il pensiero medievale collega alla parola “segno”: in segno di vita divina. A sua volta, l’arte contemporanea funziona come “segno di vita” secondo il significato che il pensiero contemporaneo attribuisce a questa espressione. Per il XX secolo, in effetti Dio non è più “in alto” ma “a distanza” in tutti i sensi del termine. Il Dio degli sguardi contemporanei si trova di fatto “a distanza”, secondo la formulazione stessa della fenomenologia della percezione più completa. Attraverso Merleau-Ponty, la questione dello spazio si trova correlata al paradigma della profondità.

In questa ottica, l’invisibile è concepito come un’apparizione della sua distanza. Il Dio degli sguardi contemporanei si tiene a sua volta “a distanza” per la maggior parte degli sguardi in un contesto diventato totalmente secolarizzato. Storia dello sguardo, riflesso di ogni epoca di cui il museo stesso è depositario di uno dei frammenti.

Ubi, “dove”? In effetti, alle origini della sua fondazione, alla fine del XIX secolo, il museo d’arte sacra di Paray-le-Monial fu innanzitutto un Hierón, un tempio-palazzo costruito a immagine degli hierón della Grecia antica, la parte sacra dei santuari greci.

Il suo fondatore, il barone Alexis de Sarachaga, ne ideò il piano nell’agitato contesto della sconfitta militare della Francia ad opera della Germania e in quello della guerra civile che seguì il sollevamento della Comune di Parigi nel 1871. Gli ambienti intransigenti pensavano ancora alla ricostruzione dell’ideale teocratico della società medievale.

La devozione verso il Sacro-Cuore, riproposta dalla spiritualità visitandina, e le apparizioni di Cristo a Marguerite Marie Alacoque nel cuore della piccola città di Paray-le-Monial sintetizzano tutte le speranza di restaurazione. Speranze presto sfociate nella costruzione di un monumento di espiazione e di riparazione per la salvezza della Francia sulla collina di Montmartre a Parigi.

Thomas Gleb, «Le signe» (1979, copyright Kyoko Kalman)Nel 1876 il progetto teocratico diviene realtà. S’incarna localmente nella creazione della “Società del regno sociale di Cristo attraverso l’Eucaristia”, prima tappa verso la creazione di un Museo-Tempio-Palazzo nel 1890-1893 destinato a presentare un intero patrimonio sull’Eucaristia: luogo di affermazione del potere temporale di Gesù-Ostia. Recherà presto l’impronta dei cambiamenti del suo ricco mecenate che sposa gradualmente un cattolicesimo al limite delle derive settarie. Di fatto l’esoterismo cristiano costituiva allora per molti un tentativo di risposta alla rivoluzione antropologica della fine del XIX secolo provocata dalla teoria dell’evoluzionismo, come pure alla crescente secolarizzazione.

Quando – “quando”? Chiuso negli anni Novanta, lo Hiéron, poi annoverato tra i musei di Francia, riapre nel 2005. Mette allora in atto, oltre a un restauro delle collezioni preesistenti, una ricca politica di acquisizione — acquisti, depositi, donazioni — presso artisti contemporanei al fine di garantire il suo ruolo di conservazione e di memoria per le generazioni future. La mostra s’iscrive in questo contesto. Ma il suo presente lega anche il passato e il futuro, iscrivendosi all’interno di una logica del luogo. Agli occhi stessi del suo mecenate-fondatore, la forma generale della costruzione, concepita all’origine come un cuore riprodotto secondo il suo piano, equivaleva di fatto alla sua idea di fondo: un cuore in grado di conferire attraverso l’arte sacra una forza vitale alla società del suo tempo. Questo progetto ha colto il senso stesso dell’arte contemporanea quando l’opera profana tocca il sacro, aprendo agli sguardi un cammino che rende viaggiatori. E rovescia la morte.

  Sylvie Barnay
28 aprile 2012 – osservatore romano