L’Afghanistan dopo il terremoto

Settimana News
Emanuele Giordana, tra i soci fondatori della associazione di giornalisti Lettera 22, attualmente lavora per la pubblicazione Atlante delle guerre e dei conflitti del mondo e per il relativo sito quotidiano https://www.atlanteguerre.it/. Scrive in particolare delle crisi del Myanmar e dell’Afghanistan, di cui ha conoscenza diretta da anni. Ha collaborato a lungo con la RAI, tuttora occasionalmente. Giordano Cavallari gli ha posto alcune domande dopo il disastroso evento del terremoto nella provincia afghana sudorientale di Khost.

Emanuele, come conosci l’Afghanistan?
Ci sono andato una prima volta da giovane un po’ incosciente, tanti anni fa e da allora mi ha preso una sorta di mal d’Asia – simile al mal d’Africa – per cui ci sono tornato più volte e per periodi estesi, da giornalista. Ho maturato da subito per il popolo afghano una grande simpatia e vederlo così sprofondare in 40 anni di conflitto mi ha dato e mi dà una grande tristezza.

Dal 2006 ho seguito da vicino la guerra in cui è stato impegnato anche l’esercito italiano: la guerra in cui anche noi, come italiani, siamo sati coinvolti. Io ne sono stato direttamente preso.

Nel nostro mestiere si può fare la scelta dell’inviato speciale in un certo posto per divenirne in qualche modo uno specialista. Per me è stato diverso. Non mi sono mai ritenuto un inviato speciale. Per me è stato importante seguire l’intero corso della guerra nel lungo periodo, in vista della pace. Se non si resta in Afghanistan, come altrove, non si capisce la portata di quel che avviene episodicamente: questo è vero anche per quel che sta accadendo ora.

In Afghanistan ho osservato una occupazione militare durata 20 anni con cui noi – italiani occidentali – abbiamo creduto di portare i diritti e il benessere alla gente. Ma non è stato così. Di fatto abbiamo garantito pochi diritti ad un segmento minore della società afghana, solo o quasi a quella urbanizzata. Mentre non siamo riusciti, ad esempio, a portare una sanità decente a tutti. Con l’istruzione è andata un po’ meglio. Abbiamo lasciato quindi il 15 agosto 2021 un Paese in cui 7 afghani su dieci erano sotto la soglia di povertà: perciò oggi sono diventati sostanzialmente 10 su 10.

Dobbiamo dunque francamente ammettere che una occupazione militare e una guerra che è durata 20 anni, con oltre 200.000 morti in gran parte civili – sbandierata, appunto, come una guerra per i diritti – ha lasciato un Paese nel disastro. Risulta ora facile dare tutta la colpa del disastro ai talebani.

Pensi di tornare in Afghanistan?
Dal 2007 al 2015 ci sono stato per 2-3 mesi all’anno. Ci sono stato l’ultima volta nel 2015. Ora vorrei tornare nella zona che meglio conosco e ove ho diversi amici, quel del sud-est, rivolta all’Asia. Sento il dovere di tornarci per un obbligo morale che avverto per quanto ho già detto. In questo momento infatti – cosa che si tace totalmente – è in atto una sorta di vendetta da parte dei Paesi occidentali che hanno perduto la guerra dell’Afghanistan – compresa l’Italia – e che stanno strangolando l’economia del Paese.

Un paese soffocato dalle sanzioni
In che modo i Paesi occidentali stanno ora soffocando l’economia afghana?
Con le sanzioni. Attualmente è praticamente impossibile inviare denaro attraverso il sistema bancario. Vorrei aiutare delle famiglie mandando del denaro, ma la banca me lo impedisce. Ma c’è qualcosa di ben peggiore delle sanzioni: gli Stati Uniti, ma anche la Germania, la Francia e pure l’Italia, insieme a Paesi del Golfo, stanno bloccando nelle loro banche gli asset finanziari della banca centrale afghana.

È noto come i Paesi poveri cerchino da tempo di mettere in sicurezza i loro beni in valuta pregiata nelle banche dei Paesi ricchi. Si tratta di beni della banca centrale e quindi appartengono al popolo afghano. Sto parlando di 10 miliardi di dollari circa, di cui 7 negli Stati Uniti, 2 in Europa, 1 nei Paesi del Golfo. 10 miliardi costituiscono una somma relativamente piccola per un Paese ricco, ma è una somma assai significativa per un Paese come l’Afghanistan che in questo momento non riesce neppure a pagare gli stipendi ai suoi sanitari e ai suoi dipendenti pubblici.

Prima della vittoria dei talebani la spesa corrente del Paese era coperta per il 70% dai Paesi militarmente occupanti, Stati Uniti in primo luogo. Questi soldi ovviamente sono stati tolti: e sin qui ci sta; l’Afghanistan non è più un Paese sotto la nostra protezione e quindi non siamo tenuti ad erogare altri fondi.

Ma quei 10 miliardi appartengono a pieno titolo all’Afghanistan: dovrebbero dunque essere semplicemente restituiti. Non restituirli, secondo me, è un crimine. E stante la situazione presente in Afghanistan, è un crimine contro l’umanità.

Qual è la situazione umanitari del Paese? Puoi meglio descriverla?
I numeri dicono questo: quasi due terzi della popolazione – circa 22 milioni di persone – è in stato di grave crisi alimentare. Di questi 22 milioni di persone almeno la metà è denutrita, non malnutrita, che ha un significato diverso. Questo significa fame. Questo vuol dire che i bambini afghani hanno e avranno un ritardo nel loro sviluppo fisico e psichico. Quel vuol dire che i vecchi muoiono e moriranno prima.

Non abbiamo ancora i numeri dell’inverno scorso. Non sappiamo ancora quanti bambini e anziani sono morti. Presto li avremo.

Questo è appunto il crimine che si sta consumando con la grave responsabilità dei Paesi che stanno trattenendo quei 10 miliardi. E questo va aldilà di ciò che è il giudizio sul regime dei talebani.

Il terremoto
Nel frattempo, le Nazioni Unite stanno raccogliendo soldi per Afghanistan, mi pare…
Sì, l’ONU ha lanciato un appello ai Paesi del mondo per far fronte ad una crisi umanitaria senza precedenti: ha chiesto 4,4 miliardi dollari, una cifra mai raggiunta per un singolo Paese; ne sono stati raccolti solo 2,5.

Con i 10 miliardi che andrebbero restituiti non ci sarebbe stato neppure bisogno di promuovere questa raccolta, dall’esito pure ampiamente insufficiente. Con quei soldi si sarebbero potute salvare – e si potrebbero ancora salvare – molte persone.

In questa situazione, il 21 giugno scorso, accade un terremoto. Cosa può succedere ancora?
Succederà che i soldi per aiutare la popolazione colpita dal terremoto verranno presi dall’ONU da quei 2,5 miliardi raccolti dalla colletta mondiale. Mentre, come ho detto, io non posso e nessuno di noi può, mandare direttamente un po’ di soldi alle famiglie colpite.

Cosa sai, ad oggi (24 giugno), dell’entità del terremoto e del numero di vittime?
Le informazioni ufficiali arrivano irregolarmente e si sono pure fermate: dicono di 1.500 morti, circa. L’esperienza dei grandi terremoti insegna che i numeri che si danno all’inizio non sono mai quelli della fine della conta, molto più alta. È presto quindi per dire quanti siano stati i morti.

Quel che so con certezza è che interi villaggi sono stati spazzati via. Il numero delle vittime – rispetto all’entità del terremoto – è limitato dal fatto che nei villaggi le case in muratura sono molto basse. Se la scossa avesse colpito qualche città in cui ci sono edifici popolari che raggiungono i 12 piani, ovviamente il numero di morti sarebbe stato di gran lunga superiore.

Per quel che sai, come stanno procedendo i soccorsi?
I talebani non sono minimamente organizzati. Chi può intervenire è l’ONU, grazie a Dio ancora presente in Afghanistan con un po’ di uomini e mezzi. Ma anche l’ONU fa fatica, anche semplicemente a raggiungere quei posti: per arrivarci coi mezzi bisogna percorrere dei tratturi più che delle strade. Stiamo parlando di zone remote, ove la guerra è stata dura e di cui non sappiamo quasi nulla.

Oltre all’ONU c’è poco altro. Teniamo conto che l’Unione Europea non ha in questo momento uno straccio di delegazione diplomatica in Afghanistan. Dopo il 15 agosto dell’anno scorso era stata promessa l’apertura di un ufficio che potesse rappresentare un po’ tutti i Paesi europei: ebbene, non se ne è fatto nulla. È chiaro che se non c’è interlocuzione diplomatica, non c’è neppure la possibilità di aiutare, neppure in una contingenza del genere.

Il dramma si aggiunge al dramma. Anzi, il dramma del terremoto si aggiunge ad una situazione ancora più drammatica e di fondo. Per questo dicevo che è impossibile raccontare gli episodi, per quanto forti e drammatici che accadano in Afghanistan, senza conoscere bene il contesto di lungo periodo di questo Paese.

Le ONG in Afghanistan
Quale ruolo hanno o possono avere le ONG italiane che sono tuttora in Afghanistan o che vi stanno ritornando?
Alcune ONG, poche – mi riferisco ad Emergency, oltre Croce Rossa Internazionale – non hanno mai lasciato il Paese, anche se il nostro governo ha chiuso i finanziamenti alle ONG in Afghanistan, ufficialmente per motivi di sicurezza. Sono rimaste le organizzazioni che godono di fondi europei o quelle che hanno una propria e robusta raccolta fondi, come Croce Rossa ed Emergency, appunto.

Altre ONG mi stanno dicendo di voler ritornare e di voler riavviare progetti di aiuto e di assistenza. Il governo sembra intenzionato a voler riaprire progetti con queste ONG. Ma è ancora evidentemente presto per l’operatività. Ci sono ancora tante incognite.

Certo è che quello delle ONG è l’unico canale di comunicazione che io vedo possibile e da sviluppare nel verso dei talebani per portare aiuti umanitari alla popolazione, ora pure a fronte del terremoto. Operatori preparati sono fisicamente sul posto. Altri se ne possono aggiungere. Hanno buoni rapporti con la popolazione e – a certe condizioni di rispetto – con gli stessi talebani, i quali sanno evidentemente capire e apprezzare l’aiuto che viene portato al loro Paese, quando si cerca di portare il cibo e la cura della salute alla gente.

Non essendoci, come ho detto, alcun canale diplomatico aperto, la nostra capacità di dialogo e quindi di influenza sui grandi temi che a parole stanno molto a cuore – pensiamo ai diritti delle donne, al diritto all’istruzione in maniera indiscriminata, alla libertà di stampa, ecc. – è molto debole. Solo le ONG possono, secondo me, in questo momento, cercare di svolgere questo ruolo. Mantenere il dialogo è fondamentale. Senza dialogo – ovvero con la chiusura totale – non si prepara mai nulla di buono.