La tragedia d’Ucraina, mentre continuano tante altre violenze

QUESTI DURI GIORNI DI MORTE E TUTTO L’ORRORE DIMENTICATO

Caro direttore, ventiquattro giorni di morte. Perché la guerra è questo. Tutti scrivono. Tutti guardano. Prima solo il Covid. Adesso l’antidoto all’ossessione del morbo è diventato una paura più grande: quella di trovarsi travolti (noi europei, noi italiani) dalla Terza guerra mondiale. In televisione e alla radio perfino i programmi che di solito raccontano di cialtrume ballerino si vedono costretti a inventare un nuovo corso per parlare dell’Ucraina. Le intervistate più gettonate sono le badanti nostrane. Quelle che fino a un mese fa venivano fatte lavorare come animali da soma (in ucraina curano ‘la sindrome Italia’, una certa schizofrenia da fatica che affligge le nostre badanti) e che oggi sono diventate le vere dive del dolore.

Oggi divido la mia casa con Natalia, una signora ucraina con 4 ragazze che si trovano ancora lì, morte di paura. Cerco di starle vicino. Ma non è facile, poveretta. Le sta vicino anche la signora dove lavorava prima. Peccato che ieri la facesse dormire su una poltrona puzzolente, oggi, improvvisamente, la chiama tutti i giorni per commentare i servizi della tv e conoscere i patimenti della sua anima. Perfino l’inquilino più cattivo del palazzo le ha offerto uno sgabuzzino per ospitare almeno due delle figlie. Prima nem- meno la salutava… Insomma, un abbraccio cosmico di tutto il quartiere…

Certo, è una guerra europea. Una guerra vicina a noi che coinvolge mille interessi, mille pericoli, mille paure. Le conseguenze, lo sappiamo, saranno terribili. Soprattutto per i nostri poveri. Dunque comprensione e partecipazione per tanto rumore sono più che sacre. Di più: gli italiani davanti a questa emergenza si sono mostrati generosi e interventisti (pensate alle migliaia di persone e di associazioni che lavorano per aiutare e accogliere) e sempre pronti a dare senza riserve. Ma in certi momenti mi chiedo: quanto durerà questo contagio di commozione universale?

Non eravamo forse tutti afghani, nell’agosto passato, quando i taleban si erano ripresi il governo di Kabul? Non eravamo noi donne, signore di salotti e femmine serie, pronte ad accogliere le artiste e le calciatrici, le poetesse e le mamme? Oggi sto lavorando a un reportage che racconta lo strazio dell’Afghanistan in questo tempo. Abbiamo girato immagini dove bambine di 15 anni, ma anche ragazzi e uomini mostrano nel fondo schiena certe cicatrici rossastre. Gli afghani sono talmente disgraziati e affamati che vendono i reni per dar da mangiare a figli, fratelli e genitori. Ma… ma… ma… Chi di noi ha più ricordato, passata l’estate, che il popolo afghano è preda di una follia feroce che lo sta condannando a morte? Nessuno. O quasi. Sei impazzita? E tu saresti un’inviata? Con la guerra in Ucraina, davanti a questo disastro pretendi che si parli di Afghanistan? Di terre lontane per le quali la guerra è un’abitudine, forse un prezzo giusto da pagare? Saresti una giornalista ‘buonista’ che adesso ricorda patrie distrutte e marcite nel dolore, come la Siria (a dir la verità qualcuno ricorda anche il carnaio di Aleppo, ma solo perché co-autore del massacro è stato Putin, il mostro del momento). Sì, sarei proprio quel tipo di giornalista lì. E che dire della strage nello Yemen e dell’Africa, colpita dalla ferocia di nuovi terroristi che sbranano da anni poveri innocenti? E se questi poverini, perseguitati da guerriglie di pazzi del terrore scappano, ma dopo viaggi e torture di anni affogano nel cimitero del Mediterraneo, c’è forse qualcuno che piange i loro neonati risucchiati dalle onde?

In Ucraina ci andrò. Poi, tra un mese circa, quando la trasmissione notturna che conduco andrà in onda… C’è tanto da raccontare. E da sperare, perché la morte si fermi. E perché gli italiani, dopo aver respirato le immagini così atroci di questa mattanza, sentano, una volta per tutte, che la guerra è orrore per tutti: bianchi e neri e gialli, europei e antartici.

Spero che questo dolore diventi almeno un’occasione. Quella di credere, di capire che l’accoglienza, che così generosamente stiamo offrendo ai fratelli e alle sorelle di Ucraina, deve diventare la stessa per i profughi di ogni dove. Per i figli di ogni nazione.

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