La fede tradotta in gesti concreti: così la piccola suora ha “conquistato” anche indù e musulmani
DI GEROLAMO FAZZINI – avvenire
La peggior sorte che possa toccare a un santo è diventare un santino. Nel caso di Madre Teresa non c’è via migliore, per evitare il rischio, che lasciar parlare lei, andando a scoprire parole meno conosciute del suo specialissimo magistero. Come queste, ad esempio: «Spero di riuscire a convertire la gente. E con ciò non intendo quello che pensate. Ciò che io spero è di riuscire a convertire i cuori. Se stando a contatto con Dio lo accettiamo nella nostra vita, allora ci stiamo convertendo.
Diventiamo indù migliori, musulmani migliori, cattolici migliori…». Una frase del genere potrebbe sorprendere qualcuno. Madre Teresa ‘relativista’? Certo che no. Se la religiosa di origine albanese ha saputo rendersi così familiare all’India e alla sua gente da essere oggi venerata pure da indù e musulmani, è perché, parafrasando Paolo, ‘si è fatta tutto a tutti’. Non in nome di un universalismo astratto, ma del Vangelo di Gesù.
«Ancora oggi molti mi raccontano del loro primo incontro con Madre Teresa – ha detto in una recente intervista a Fides sister Mary Prema, che guida oggi le Missionarie della Carità –. L’avevano vista forse per cinque minuti sul terrazzo della nostra casa madre. Ma quell’unico momento ha cambiato la loro vita per sempre. Molte di queste persone sono indù. Non si sono convertiti al cristianesimo. Ma hanno cominciato a vedere la loro vita e il loro lavoro con altri occhi». Ecco il segreto della Beata di Calcutta: la capacità di testimoniare Dio attraverso la carità, in un modo così concreto e trasparente da conquistare il cuore delle persone di ogni fede religiosa. Madre Teresa, che teologa non era, è riuscita laddove tanti tentativi di inculturazione del messaggio cristiano sono andati a vuoto. «Con la testimonianza della sua vita – disse Giovanni Paolo II il giorno della sua beatificazione – Madre Teresa ricorda a tutti che la missione evangelizzatrice della Chiesa passa attraverso la carità, alimentata nella preghiera e nell’ascolto della parola di Dio. Emblematica di questo stile missionario è l’immagine che ritrae la nuova Beata mentre stringe, con una mano, quella di un bambino e, con l’altra, fa scorrere la corona del Rosario».
Contemplazione e azione, mistica e carità: è l’impasto di queste due dimensioni, che nell’esistenza di Madre Teresa assume una forma originalissima, ad averle consentito di far breccia in un popolo e in una cultura che a lungo (e tuttora) considera spesso il cristianesimo qualcosa di straniero. In un’intervista del 1997, l’arcivescovo di Calcutta, Henry D’Souza, disse: «Io credo che per amare gli indiani, e soprattutto i lebbrosi, quelli che muoiono per strada, che esibiscono le piaghe, che si lasciano andare al fatalismo, io credo che occorra diventare indiani. Madre Teresa ci mise vent’anni. E su questo diventare indiana, cioè distaccata e come assorta nella sua ricerca individuale, da contemplativa, da mistica, innestò la sua tensione cristiana, ossia la compassione per gli altri. Allora realizzò la sintesi. Anche Gandhi era riuscito a mettere insieme distacco e carità, per questo Madre Teresa mi confidò che lo amava ». È la medesima ragione per cui le suore col sari biancoazzurro riescono a rendersi presenti in contesti ostici (o persino impenetrabili) per religiose cattoliche: da Gaza all’Afghanistan, passando per Cuba, Nepal e così via… Madre Teresa stessa ha detto: «Non abbiamo assolutamente alcuna difficoltà a lavorare in Paesi con diverse fedi religiose. Trattiamo tutti come figli di Dio e mostriamo per loro grande rispetto».
Una testimonianza, la sua, che lascia il segno nelle persone più diverse: basta guardare in faccia i volontari che continuano a frequentare le case delle Missionarie della carità. Un fatto che colpì Tiziano Terzani, il quale ebbe a scrivere un pezzo sulla Madre «come uno – parole sue – che racconta di aver visto un miracolo. E il miracolo era quello: aver ridato a tanti giovani occidentali, così persi nel grasso di questa ricchezza, così poveri spiritualmente, aver dato loro una forza, un fuoco che li bruciava».
DI GEROLAMO FAZZINI – avvenire
La peggior sorte che possa toccare a un santo è diventare un santino. Nel caso di Madre Teresa non c’è via migliore, per evitare il rischio, che lasciar parlare lei, andando a scoprire parole meno conosciute del suo specialissimo magistero. Come queste, ad esempio: «Spero di riuscire a convertire la gente. E con ciò non intendo quello che pensate. Ciò che io spero è di riuscire a convertire i cuori. Se stando a contatto con Dio lo accettiamo nella nostra vita, allora ci stiamo convertendo.
Diventiamo indù migliori, musulmani migliori, cattolici migliori…». Una frase del genere potrebbe sorprendere qualcuno. Madre Teresa ‘relativista’? Certo che no. Se la religiosa di origine albanese ha saputo rendersi così familiare all’India e alla sua gente da essere oggi venerata pure da indù e musulmani, è perché, parafrasando Paolo, ‘si è fatta tutto a tutti’. Non in nome di un universalismo astratto, ma del Vangelo di Gesù.
«Ancora oggi molti mi raccontano del loro primo incontro con Madre Teresa – ha detto in una recente intervista a Fides sister Mary Prema, che guida oggi le Missionarie della Carità –. L’avevano vista forse per cinque minuti sul terrazzo della nostra casa madre. Ma quell’unico momento ha cambiato la loro vita per sempre. Molte di queste persone sono indù. Non si sono convertiti al cristianesimo. Ma hanno cominciato a vedere la loro vita e il loro lavoro con altri occhi». Ecco il segreto della Beata di Calcutta: la capacità di testimoniare Dio attraverso la carità, in un modo così concreto e trasparente da conquistare il cuore delle persone di ogni fede religiosa. Madre Teresa, che teologa non era, è riuscita laddove tanti tentativi di inculturazione del messaggio cristiano sono andati a vuoto. «Con la testimonianza della sua vita – disse Giovanni Paolo II il giorno della sua beatificazione – Madre Teresa ricorda a tutti che la missione evangelizzatrice della Chiesa passa attraverso la carità, alimentata nella preghiera e nell’ascolto della parola di Dio. Emblematica di questo stile missionario è l’immagine che ritrae la nuova Beata mentre stringe, con una mano, quella di un bambino e, con l’altra, fa scorrere la corona del Rosario».
Contemplazione e azione, mistica e carità: è l’impasto di queste due dimensioni, che nell’esistenza di Madre Teresa assume una forma originalissima, ad averle consentito di far breccia in un popolo e in una cultura che a lungo (e tuttora) considera spesso il cristianesimo qualcosa di straniero. In un’intervista del 1997, l’arcivescovo di Calcutta, Henry D’Souza, disse: «Io credo che per amare gli indiani, e soprattutto i lebbrosi, quelli che muoiono per strada, che esibiscono le piaghe, che si lasciano andare al fatalismo, io credo che occorra diventare indiani. Madre Teresa ci mise vent’anni. E su questo diventare indiana, cioè distaccata e come assorta nella sua ricerca individuale, da contemplativa, da mistica, innestò la sua tensione cristiana, ossia la compassione per gli altri. Allora realizzò la sintesi. Anche Gandhi era riuscito a mettere insieme distacco e carità, per questo Madre Teresa mi confidò che lo amava ». È la medesima ragione per cui le suore col sari biancoazzurro riescono a rendersi presenti in contesti ostici (o persino impenetrabili) per religiose cattoliche: da Gaza all’Afghanistan, passando per Cuba, Nepal e così via… Madre Teresa stessa ha detto: «Non abbiamo assolutamente alcuna difficoltà a lavorare in Paesi con diverse fedi religiose. Trattiamo tutti come figli di Dio e mostriamo per loro grande rispetto».
Una testimonianza, la sua, che lascia il segno nelle persone più diverse: basta guardare in faccia i volontari che continuano a frequentare le case delle Missionarie della carità. Un fatto che colpì Tiziano Terzani, il quale ebbe a scrivere un pezzo sulla Madre «come uno – parole sue – che racconta di aver visto un miracolo. E il miracolo era quello: aver ridato a tanti giovani occidentali, così persi nel grasso di questa ricchezza, così poveri spiritualmente, aver dato loro una forza, un fuoco che li bruciava».