«La riforma della curia romana sarà reale e possibile se germoglierà da una riforma interiore, con la quale facciamo nostro il paradigma della spiritualità del concilio, espressa nell’antica storia del buon Samaritano»

di: Lorenzo Prezzi – Settimana news

praedicate evangelium

Praedicate Evangelium, sulla curia romana e il suo servizio alla Chiesa nel mondo: questo il titolo della costituzione apostolica che ridisegna il sistema curiale della Santa Sede (21 marzo 2022).

Il testo è attraversato da importanti enunciati, ma anche da tensioni soggiacenti. Fra i primi ricordo: il primato dell’evangelizzazione, la sinodalità, la riforma della Chiesa, la carità e il servizio ai poveri.

Fra le seconde: la dialettica fra burocrazia e ispirazione evangelica, fra istituzioni e creatività, fra servizio petrino e apertura ai laici (uomini e donne), fra equiparazione dei dicasteri e acefalia, fra curia e vescovi, fra professionalità e santità.

Un sistema di relazioni dialettiche già evidente fra la lunga attesa del documento e la sorpresa della sua pubblicazione. A distanza di alcuni giorni, diversi curiali non l’avevano ancora accuratamente letto, i giornalisti si sono formalmente lamentati di una presentazione arrivata troppo tardi, la recezione ecclesiale non sembra neppure avviata.

Un preambolo, due capitoli su principi e norme, i compiti della Segreteria di stato, l’elenco dei 16 dicasteri e dei loro ambiti di lavoro e poi gli articoli sugli organismi di giustizia, economici, uffici, avvocati, istituzioni collegate alla Santa Sede.

La norma transitoria chiude i 250 articoli che scandiscono il documento. Avviato nove anni fa e sottoposto a due ampie consultazioni nel 2020 è stato rivista dal Consiglio dei cardinali (il cosiddetto G9) e poi dalla Congregazione per la dottrina della fede e il pontificio consiglio per i testi legislativi. Promulgato il 19 marzo 2022 entrerà in vigore il 5 giugno.

Accenno solo ai principi di riferimento che emergono con evidenza. Anzitutto l’evangelizzazione e l’annuncio.

Il dicastero sull’evangelizzazione è il primo nella lista. La Chiesa a questo è destinata, «per annunciare il Vangelo del Figlio di Dio, Cristo Signore, e suscitare con esso in tutte le genti l’ascolto della fede». Il rinnovamento della fede passa dalla conversione missionaria chiesta a tutti e in particolare ai collaboratori del papa.

La sinodalità attraversa l’insieme degli articoli, accanto al primato della missione e della comunione. «Per la curia romana ciò significa che l’esercizio del suo servizio dev’essere sinodale» (M. Mellino). Se i primi tre dicasteri (Evangelizzazione, Dottrina della fede, servizio della carità) danno il timbro alla costituzione apostolica e la dimensione sinodale l’attraversa, ciò è frutto della grazia e della volontà della riforma dell’insieme della Chiesa, oltre che della curia. In coerenza con l’afflato di Evangelii gaudium.

Tutto ciò determina una prima tensione dialettica, quella fra strutture pregresse e nuove istituzioni. Se al dicastero per la dottrina della fede, anche nelle più recenti formulazioni (in due sezioni) il richiamo è a precise e già organiche competenze, il nuovo dicastero sulla carità può attingere alle pratiche dell’ex-elemosineria apostolica e deve ancora trovare gli spazi propri per rendere concreta la vicinanza del papa ai poveri, ai vulnerabili e agli esclusi. L’individuazione delle competenze non sarà immediata.

Una seconda tensione che attraversa alcuni dei dicasteri riformulati è quella fra la gestione e l’innovazione creativa. Avere collocato assieme nel dicastero, cultura e educazione, ad esempio,  prevede, da un lato, il coordinamento di migliaia e migliaia di scuole, di centinaia di università, di miriadi di percorsi formativi e, dall’altro, la fantasiosa creatività del “cortile dei gentili” o di eventi sull’intelligenza artificiale.

Una terza tensione è fra la riconferma del potere papale e l’apertura della collaborazione alla curia a uomini non ordinati e a donne non consacrate. La possibilità, oltre che già esperimentata, è stata giustamente indicata come una innovazione di peso.

Essa indica, contrariamente alle paure di quanti temevano un diminuzione del ruolo pontificio, una precisa riconferma della suprema, piena potestà del pontefice su tutta la Chiesa. Solo l’autorità indiscussa del papa permette i nuovi orizzonti dei cooperazione dei laici. C’è chi ha persino rovesciato l’immagine del papa nero (il preposito dei gesuiti) come figura del papa bianco (il pontefice).

Secondo alcuni, il secondo sarebbe trainato dal primo. Il rapporto fra decisore e collaboratori laici non ha più gli ammortizzatori dell’appartenenza clericale e potrebbe indurre forme di mimetismo e di servilismo. Per ora, i casi già presenti (Paolo Ruffini al dicastero della comunicazione, Nathalie Becquart alla segreteria del sinodo, Alessandra Smerilli allo sviluppo umano integrale, Raffaella Petrini alla segreteria generale della Città del Vaticano) godono di grande stima.

Anche la durata degli uffici (cinque anni, riconfermabili solo una volta), da tutti considerata opportuna e doverosa per evitare il formarsi di lobby e dare più ampia possibilità di scelta relativamente ai collaboratori, potrebbe penalizzare la costruzione prolungata di competenze  assai preziose.

Altra possibile tensione nasce dall’equiparazione dei dicasteri. Sono tutti sullo stesso piano. Viene meno la tradizionale funzione direttiva della Segreteria di stato. Il suo ruolo di filtro e di raccordo permetteva agli uffici una più immediata chiarifica.

Se la stagione del card. T. Bertone, visto come un “secondo papa”, era stata denunciata come impropria da molti, anche nei dialoghi pre-conclave, l’abbassamento del profilo della segreteria, ricondotta a segreteria papale, potrebbe rivelarsi la liberatoria per l’ampliarsi dei conflitti di competenza e la rincorsa a vie privilegiate per entrare nell’“appartamento”, come viene indicata la residenza del papa. L’esperienza di questi anni del card. P. Parolin ha mostrato una tolleranza e una robustezza di guida e di visione assai apprezzate.

Una ulteriore, possibile dialettica, è quella fra curia e vescovi. È ripetuto con enfasi che il lavoro curiale è al servizio sia del papa sia dei vescovi, che le conferenze episcopali sono fra i modi più significativi della comunione ecclesiale, che la curia non deve decidere su quello che compete ai singoli vescovi, ma rimangono ancora intatti gli scomodi confini a cui l’Apostolos suos, il motu proprio di Giovanni Paolo II, le aveva confinate nel 1988.

E, pur dando per scontato che le Conferenze più fragili si appoggino molto a Roma, rimangono vincoli da sciogliere. Così come è stato fatto per la revisione dei testi liturgici sottoponibili oggi a conferma e non a cambiamenti  sostanziali da parte del dicastero.

Molto si deciderà nel processo di recezione e nella qualità dei curiali. Se le competenze richieste si fonderanno con la vita interiore, la disponibilità pastorale e la condivisione della spiritualità del servizio, molto di quello che appare oggi in tensione potrebbe risolversi in meglio.

«La riforma della curia romana sarà reale e possibile se germoglierà da una riforma interiore, con la quale facciamo nostro il paradigma della spiritualità del concilio, espressa nell’antica storia del buon Samaritano». «Si tratta qui di una spiritualità che ha la propria fonte nell’amore di Dio che ci ha amato per primo, quando noi eravamo ancora poveri e peccatori, e che ci ricorda che il nostro dovere è servire come Cristo i fratelli, soprattutto i più bisognosi e che il volto di Cristo si riconosce nel volto di ogni essere umano, specialmente dell’uomo e della donna che soffrono» (n. 11).