La pandemia aggrava lo sfruttamento del lavoro minorile

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Multilateralismo

27 novembre 2020 Osservatore

Ci sono strade che non devono riportare indietro, una di queste è quella verso l’abolizione del lavoro minorile. Sono ancora vergognosamente troppe le piccole mani impegnate ad arare i campi, a estrarre metalli dalle miniere, troppi i bambini costretti ad alzarsi all’alba per vendere nei mercati, troppe le bambine obbligate a percorrere chilometri per trovare l’acqua necessaria alla famiglia, costrette ai lavori domestici che impediscono loro di frequentare la scuola e nel cui futuro ci sono solo matrimoni e gravidanze precoci. La crisi socio-economica mondiale causata dalla pandemia rischia, infatti, di riportarci indietro di 20 anni sul lavoro minorile. Secondo le stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil), agenzia delle Nazioni Unite che promuove la giustizia sociale e i diritti umani con particolare riferimento a quelli del lavoro, sono attualmente 152 milioni i bambini che lavorano, di cui 73 costretti a forme di lavoro pericolose.

La crisi che si è abbattuta sul mondo, secondo l’Organizzazione, rischia di ridurre in estrema povertà tra i 42 e i 66 milioni di bambini nel 2020, oltre ai 386 milioni di minori che vivevano già in povertà alla fine del 2019. Ed è dimostrato, secondo gli studi dell’Oil, che esiste un legame diretto tra l’aggravarsi della povertà e l’aumento del lavoro minorile. Le famiglie che hanno subito sconvolgimenti direttamente o indirettamente derivanti dalla pandemia: perdita di posti di lavoro; mancanza di reddito dovuta al contenimento; interruzione delle rimesse; spese mediche impreviste, possono essere costrette a fare affidamento sul lavoro minorile per sopravvivere. Inoltre, la pandemia in molte zone del mondo ha portato con sé un drammatico aumento dell’insicurezza alimentare e nutrizionale tra le famiglie vulnerabili.

Dunque, paradossalmente, il 2021 che l’Onu ha designato come Anno internazionale per l’eliminazione del lavoro minorile potrebbe essere invece la data di un tragico ritorno al passato. Per questo l’Oil avverte che, non solo in assenza di misure per mitigare ed eliminare gli effetti della pandemia, vi è il rischio di non raggiungere l’obiettivo di sviluppo sostenibile di porre fine al lavoro minorile entro il 2050, ma anche di cancellare i passi avanti duramente conquistati negli ultimi due decenni nella lotta a questa piaga. Gli studi sulla crisi economico-finanziaria del 2008-2009 hanno rilevato come le famiglie di lavoratori migranti che hanno subito un calo delle rimesse si sono visti obbligati a far lavorare i propri figli. E ora, secondo l’Oil, stanno già emergendo nuovi casi di minori costretti in schiavitù. La povertà costringe le famiglie a far lavorare i propri figli per ottenere un prestito o rimborsare un debito. I minori vengono costretti a servitù domestica e utilizzati come manodopera in settori pericolosi come quello minerario e agricolo, nonché in varie attività di sweatshop. Secondo l’Agenzia Onu, inoltre, le famiglie disperate stanno costringendo i loro figli a cercare cibo e denaro sulle strade, esponendoli a tutti i tipi di rischi. Spesso i genitori si adattano anche a mandare i bambini a lavorare altrove, sottoponendoli ancora di più allo sfruttamento e al rischio di finire nelle grinfie dei trafficanti di esseri umani.

Infine in un momento in cui la maggior parte dei ragazzi non frequenta la scuola, chiusa per il virus, viene meno anche quella protezione sociale che l’istruzione garantisce. Altre pandemie hanno inoltre dimostrato che, una volta lasciata la scuola ed entrati in attività lucranti, i bambini difficilmente tornano in aula. È stato così con la pandemia di Ebola del 2014 in Africa occidentale, quando la maggioranza dei 5 milioni di bambini colpiti dalla chiusura delle scuole, non è mai più tornata in classe e sono invece aumentate le gravidanze adolescenziali e i casi di matrimonio infantile. Infine, in molti contesti la pandemia ha costretto i bambini in nuovi ruoli lavorativi all’interno delle famiglie perché sono percepiti come più resistenti al virus. Dunque — ad esempio in Myanmar dove le famiglie erroneamente credono che i minori abbiano meno probabilità di infettarsi — a loro sono affidati gli acquisti fuori casa, sono obbligati alla cura dei bambini più piccoli e dei malati o vanno a lavorare nonostante le misure di quarantena. È il caso quindi di ricordare le parole di Iqbal Masih, bambino operaio e attivista pakistano diventato un simbolo della lotta contro il lavoro minorile: «Nessun bambino dovrebbe impugnare mai uno strumento di lavoro. Gli unici strumenti di lavoro che un bambino dovrebbe tenere in mano sono penne e matite».

di Anna Lisa Antonucci