La pace, tra muro e speranze

Noi la crisi, loro la guerra. Noi prigionieri della nostra crisi. I palestinesi prigionieri della loro terra. Gli israeliani prigionieri della guerra. Prigioni diverse ma sempre prigioni. «Betlemme è una prigione a cielo aperto», ci ha detto il sindaco al nostro arrivo. E a guardare da vicino il muro imponente che circonda Betlemme, s’insinua come un serpente tra le sue case e divora le sue terre, capisci immediatamente che sta dicendo il vero. La prigione ha due soli ingressi controllati da Israele. Se sei palestinese, non esci per nessun motivo. A meno che non riesci a strappare ai carcerieri un permesso. Chi può scappa. Chi resta ha perso ogni speranza, è stanco, affaticato, mortificato. Non ce la fa più.

Dall’altra parte del muro è tutta un’altra storia. C’è un paese “normale”, strade, città, centri commerciali, servizi pubblici… Anzi più normale del nostro. Perché, come ci dice orgoglioso il sindaco di Ramla, qui la crisi non si è fatta sentire come in Italia. Ma poi quando arrivi a Sderot e ascolti la storia di chi vive da 11 anni a due passi dalla Striscia di Gaza, a poche ore dall’ultimo scambio di missili, ti rendi conto che la realtà di Israele è un’altra. Quella scandita dalle guerre: 1948, 1967, 1973, 1987, 2000, 2006, 2008. Una lunga serie di guerre che ha inciso profondamente nella mentalità di un popolo. «Abbiamo perso la capacità di vedere gli altri», riflette amaramente Nomika Zion accompagnandoci sul confine. «Abbiamo perso la capacità di sentire l’empatia verso l’altro e così abbiamo perso una parte della nostra umanità. Per la gran parte degli israeliani i palestinesi non hanno una faccia, una voce, un nome. Sono solo un’entità collettiva con un solo nome: terroristi. Per questo noi non pensiamo alla pace ma solo alla prossima guerra».

«Grazie di essere venuti». Ce lo stanno dicendo tutti, palestinesi e israeliani. Non importa quale sia la forma della prigione. Anche quelle dorate sono soffocanti. E ricevere la visita di una persona amica fa piacere. Per le famiglie palestinesi che ci hanno aperto le loro case è stata una gioia immensa. Per gli israeliani che ci hanno accolto è stata una boccata d’ossigeno. La vicinanza cambia le cose.


Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace 
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