La mostra a Reggio Emilia. La nave dei folli contro la borsa delle artistar

A Palazzo Magnani una rassegna mischia le carte con artisti celebri “inquieti” e protagonisti della creatività nei luoghi psichiatrici. Ma premia il marketing
Gino Sandri, “Il sacrista Spreafico. Mito beone”, 1932-1939

Gino Sandri, “Il sacrista Spreafico. Mito beone”, 1932-1939

Francamente la mostra L’arte inquieta mi è difficile da capire; o meglio, capisco anche troppo, ma faccio fatica a digerirla. E che cosa mai potrò aver incontrato di tanto indigesto da restarne male impressionato? Il contesto mainstream con cui viene proposta al pubblico, per esempio. Tutto è ribaltato in una logica che serve al marketing. “L’urgenza della creazione”, questa la promessa (il claim come dicono i pubblicitari), prende il posto del vero titolo (l’headline, per restare in tema) che viene sostituito da alcune parole d’ordine: “interiore, mappa, volto”. E dopo aver preso questa strada ecco il colpo conclusivo, “140 opere da Paul Klee ad Alselm Kiefer” che cela il segreto di Pulcinella, è la frase che serve ad accalappiare il pubblico. Insomma, più che una dichiarazione d’intenti culturali, è un titolo non scontato, una promessa pubblicitaria, come spesso ormai accade nell’industria delle esposizioni. Che cosa c’è di trito come l’inquietudine? Non siamo forse ben oltre? Insomma, una operazione di fumo (con tanto di scolaresche e matite colorate) dalla cui nebulosa emerge inquinato quanto di buono poteva esserci in questa rassegna.

Ve lo immaginate l’effetto sul pubblico che doveva arrivare a Reggio Emilia, un messaggio così concepito: “L’arte turbata. Opere dall’ex Ospedale psichiatrico e il Novecento, da Klee a Gervasi, da Zinelli e Sandri a Kiefer”? Non sarebbe stato più fedele al vero? Sicuramente, ma poco pubblicitario. Per carità, niente da insegnare, ma ciò che emerge dal titolo scelto dagli organizzatori di Palazzo Magnani, si riflette anche in “discriminazione” fondata sul diritto d’autore. Le opere dei grandi nomi dell’arte sono quasi tutte vietate alle fotografie, le opere dei “matti” invece sono fotografabili a go-go. La Siae come nuovo tribunale dove si decide il valore delle opere? Mi ricorda un celebre caso degli anni Venti del Novecento legato a una mostra di Brancusi a New York, che arrivò fino in tribunale, perché il funzionario della dogana s’impuntò a tassare Uccello nello spazio come manufatto anziché come opera d’arte (gli sembrava un valore non ben quantificabile), ma i giudici riconobbero in parte la posizione dello scultore sul valore artistico e da quel momento il rapporto fra economia e arte cambiò per sempre. Qui, a pensarci, il rapporto fra arte e denaro sta nel potere auto pubblicitario dell’artista, per cui Klee, Giacometti, Kirchner, Dubuffet (che fu il primo a promuovere l’Art brut), Kiefer, tutti loro portano l’aura anche sui poveri disadattati e trovano nelle loro menti turbate un paradigma nel quale proiettare la propria inquietudine; e le opere dei folli diventano analogamente «tracce impreviste di pensiero automatico». Barlumi d’intuizioni che li avvicinano alla logica degli artisti celebri? Ovvero, cavie di studio per vedere l’origine di certe pulsioni creative dei sani? Questo vien da pensare leggendo il saggio del curatore Giorgio Bedoni che apre il catalogo (Silvana). Non si diceva una volta, quando la psichiatria doveva liberare i matti dalle loro prigioni e dai macchinari disumani, che un germe di schizofrenia c’è in ciascuno di noi? Sì, nessuno è normale, anche questo rientra nella visione basagliana, ma il fatto è che quando il marketing guida le scelte comunicative si perde anche una parte del fine che si doveva realizzare.

Per esempio che cosa ci fa nello spazio d’accesso alle scale la grande figura femminile in bronzo di Giacometti, alta quasi tre metri? L’artista di Stampa, Canton Grigioni, subiva certo la pressione orizzontale del vuoto (le sue statue tendono ad allungarsi e a schiacciarsi quasi venissero stritolate da una forza invisibile; le più piccole si riducono sottili come un filo di tungsteno che si accende nel nulla), così che gli veniva tutto sommato facile e perfetto per la sua epoca di nichilismi esistenziali dire «la scultura posa sul vuoto». Ma, a mio parere, se anche la maladresse – la “goffaggine” che piaceva a Tullio Garbari – di cui parlò Maritain, riguarda sia opere primitive sia moderne, applicata allo schema dell’Art brut e ad altre involontarie creazioni rischia invece di essere un termine “connotante”, ovvero poco calzante. La stessa inquietudine di Giacometti stava proprio nel sapersi cartesianamente troppo vicino alla realtà, laddove gli sarebbe stato più semplice separare le cose dalla loro condizione creata, dalla loro spirituale origine. Sartre, con le sue proiezioni esistenziali non lo aveva spinto più vicino alla verità, lo aveva semplicemente assecondato. Paris sans fin è il testamento di questa distanza fra realismo sartriano e alterità. Persino i ritratti di Lorenzo Viani, i volti ombrosi di vestali che gli venivano incontro come maschere proiettate dagli inferi, hanno una lucidità ben diversa dalle opere degli schizofrenici. La definizione più precisa arriva da Zoran Music quando scrive che mentre sta dipingendo l’Autoritratto, il suo corpo si guarda dentro e non allo specchio, altrimenti vedrebbe soltanto l’aspetto esteriore della sua persona. È in queste manifestazioni che il solco con l’ospedale psichiatrico si allarga e la definizione degli “innocenti dell’arte” rischia allora di essere fuorviante. Persino freudianamente fuorviante. La mostra attualmente in corso, che segue di qualche anno quella su Dubuffet e l’Art brut, non aveva bisogno di una stragrande preponderanza di artisti del mercato (ma le quattro opere di Zavattini valgono la visita), bensì di portare con grande decisione l’accento sul patrimonio custodito dall’Archivio delle collezioni psichiatriche reggiane, cosa che viene fatta però a rimorchio dell’inquieta arte dei ricchi.

L’Archivio di San Lazzaro possiede infatti ventimila fra disegni, dipinti e sculture che in gran parte devono essere ancora esaminati e approfonditi; si potrebbe appunto dire che sia una terra dei dispersi, la memoria di un altro tempo, che proprio per le condizioni degli artefici è, si perdoni il gioco di parole, un “tempo altro”, l’origine stessa della differenza tra questi uomini e donne, e gli artisti blasonati e tutelati dal diritto d’autore. La mente dei disabili creativi viene proiettata, giustamente, sulla “cartografia” come esplorazione di isole interiori. Carlo Zinelli, il cui genio turbato venne alla ribalta già qualche decennio fa in varie mostre, viene paragonato a un “viaggiatore da camera”, ma mentre lo scrittore romantico Xavier de Maistre poteva spingersi con la mente in luoghi dove non sarebbe mai arrivato contento di immaginare viaggi da stanza, Carlo ha fatto della mente un mezzo per evadere dal labirinto dov’era rinchiuso. Se in questi autori – sia pure di un’autorialità intermittente, dove è difficile dire fin dove ci sia un impulso cosciente per la forma – la mappa diventa un simbolo per chi studia le loro produzioni come tentativo di dare un orientamento ai segni, certo i fogli di Federico Saracini a fine XIX secolo o i palazzi fantastici di Giuseppe Righi nella prima metà del XX, possono indurre gli analisti a parlare di ramo italiano dell’Art brut, ma il rischio è di volerli incasellare in un modello molto francese, quando invece per parte italiana potrebbero aprirsi scenari che vanno ben oltre l’automatismo creativo. Entrare nella loro mente, non necessariamente deve servire a sostenere l’analogia fra la loro creatività e l’arte “informale” di tanti nomi che dettano legge sul mercato. Si rischia lo stereotipo.

Uno di loro, Gino Sandri, è esposto con alcuni ritratti a matita e pastello molto incisivi e a loro modo spietatamente reali di persone che l’autore vide in ospedale psichiatrico. La follia la si può raggiungere anche entrando in manicomio. Sandri, genovese d’origine venuto a Milano ancora adolescente nel 1899 e da ragazzo commesso alla Libreria Hoepli con Giovanni Scheiwiller, negli anni collabora al “Corriere dei piccoli” e “Il Guerrin Meschino”; conosce Carrà e Carpi e si fa notare per il talento. Nel 1924 però viene internato per ragioni politiche ed è l’inizio di un andare e venire da una clinica all’altra per il resto della vita. Eppure, è palese dai disegni, la follia non cancella nella sua mente la luce del genio.

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