La fede e le parole. Immacolata Concezione, il dogma tra devozione popolare e teologia

Così nasce un insegnamento della Chiesa. Trovarsi di fronte a ciò che sovrasta di gran lunga la nostra povera ragione, non significa avere a che fare con una formula irrazionale
Immacolata Concezione, il dogma tra devozione popolare e teologia

Imagoeconomica

La parola “dogma” non gode di buona reputazione nel nostro contesto culturale occidentale. Il pensiero critico della modernità compiuta, con Immanuel Kant, si è assunto il compito di svegliare l’umanità dal “sonno dogmatico”. Il pensiero liquido della post-modernità o tarda modernità non ama i punti fermi e si delinea come post-veritativo, garantendo cittadinanza esclusivamente alle opinioni. Eppure, un grande pensatore russo come Pavel A. Florenskij, evocando la dimensione paradossale e antinomica del dogma, ammoniva: «Se la verità non fosse antinomica, il raziocinio, muovendosi in cerchio nel proprio campo, non avrebbe un punto d’appoggio, non vedrebbe l’oggetto extra-razionale, e quindi non avrebbe lo stimolo ad abbracciare l’eroismo della fede. Questo punto d’appoggio è il dogma. Proprio con il dogma incomincia la nostra salvezza, perché il dogma, essendo antinomico non costringe la nostra libertà e dischiude tutta l’estensione della fede volontaria o della maligna incredulità» (La colonna e il fondamento della verità).

Trovarsi di fronte a ciò che sovrasta di gran lunga la nostra povera ragione, come nel caso della fede nell’Immacolata Concezione della Vergine Madre, che siamo chiamati a celebrare, non significa, tuttavia, aver a che fare con una formula irrazionale. Piuttosto questo dogma, come tutti gli altri, nasce certamente dalla devozione popolare, ma è stato preceduto, accompagnato e deve essere seguito da una rigorosa riflessione, perché, come afferma Antonio Rosmini: «badisi bene, che quando un dogma è reso un assurdo, egli è bello ed annullato in tutte le intelligenze umane; e quand’esso è ridotto ad una parola, basta un frego sulla carta per cancellarlo. No, i dogmi della Chiesa non consistono in meri vocaboli; sono ciò che i vocaboli significano, e costituiscono l’oggetto della nostra credenza: la Chiesa colle sue parole non cerca di illudere gli uomini» (Razionalismo teologico).

Come noto la devozione popolare all’Immacolata è stata contrastata e messa in discussione da illustri teologi e pensatori, quali ad esempio Bernardo di Chiaravalle (cui Dante affiderà la preghiera a Maria nell’ultimo canto della Commedia) e Tommaso d’Aquino con al suo seguito i domenicani di Parigi. Ad Oxford, dove invece prevaleva la teologia francescana, la formula venne accolta e difesa fino ad una famosa disputa parigina del 1307 da Giovanni Duns Scoto. Il film Scotus (2010, regia di Fernando Muraca) rappresenta in maniera decisamente attendibile tale disputa, riportando le motivazioni del dottore sottile con l’efficacia che compete alle immagini in movimento, spesso prevalente rispetto ai libri. Le obiezioni di quanti erano contrari all’immunità di Maria dal peccato originale fin dal suo concepimento vanno prese, come fa Scoto, in seria considerazione, non solo allora, ma anche oggi. La preoccupazione che animava questi teologi consisteva nel fatto che una tale formula avrebbe potuto intaccare l’universalità della redenzione operata da Cristo, che quindi non avrebbe riguardato tutto il genere umano, non avendone la madre bisogno in quanto scevra dal peccato. In tale prospettiva si poteva pensare che Maria fosse stata concepita col peccato d’origine e che prima della sua nascita ne sarebbe stata liberata, in vista della sua maternità divina (dogma di Efeso, anno 431 della nostra era). Tale impostazione sembrava meglio garantire l’universalità della redenzione e al tempo stesso maggiormente coerente con la ragione.

Il dottore francescano e la scuola che lo ha sostenuto e seguito ha trovato in età moderna il significativo sostegno della Compagnia di Gesù, facendo leva, con ragioni profondamente teologiche, sulle seguenti argomentazioni. In primo luogo, la devozione (lex orandi) che si andava diffondendo in Europa non poteva essere sostenuta da una semplice opinione teologica. Il popolo di Dio, che pure ha bisogno di riflettere su ciò che prega, non si lascia ammaliare dal razionalismo dei teologi. Lex orandi è lex credendi (ciò che si prega si crede). In secondo luogo, il riferimento alla potenza assoluta (come dirà il confratello Guglielmo da Ockham) per cui «potuit, decuit ergo fecit: ciò conveniva, era possibile, e dunque Dio lo fece», secondo il dettato di Scoto, ma anche di altri teologi: se Dio poteva liberare la Vergine dal peccato originale (potuit); era conveniente che colei che doveva essere Madre di Dio fosse concepita senza il peccato originale (decuit), quindi se Dio lo poteva compiere (potuit) e, se era conveniente che Dio lo facesse (decuit), allora Dio lo fece (fecit). Infine, con la formula dell’Immacolata Concezione della Vergine Madre non viene affatto intaccata l’universalità della redenzione operata da Cristo, perché è in vista dell’incarnazione del Verbo che ciò accade. Questo in quanto, nella visione scotista, «chi vuole ordinatamente, vuole prima il fine, poi ciò che immediatamente raggiunge in fine, e il terzo luogo tutto ciò che è ordinato remotamente al raggiungimento del fine. Così anche Dio, che è ordinatissimo, vuole prima il fine e poi ciò che è ordinato immediatamente al fine; in secondo luogo, vuole altri amanti attorno a sé; in terzo luogo, vuole anche ciò che è necessario per raggiungere questo fine, ossia i beni della grazia; e in quarto luogo infine vuole altri beni più remoti come mezzi per raggiungere i primi (beni della grazia)». Insomma: l’Immacolata ci consente di leggere la storia della salvezza a partire dal fine che è la redenzione, di cui in Lei risplende non solo l’universalità, ma il profondo realismo e la radicalità. E il redentore è sempre e comunque il Cristo Signore.

Nel 1848 al beato Antonio Rosmini veniva chiesto di esprimere il proprio voto-parere sull’opportunità di proclamare da parte del romano pontefice il dogma dell’Immacolata Concezione della Vergine Madre. La risposta del Roveretano è molto interessante e la si può leggere nell’edizione critica degli Scritti teologici minori (2019, Città Nuova, dove si trova anche una riflessione dell’Autore sulle testimonianze del Corano alla Vergine Maria). Rosmini ritiene che non si tratta di mettere in dubbio questa verità presente nella fede e nella devozione di tanti credenti, bensì dell’opportunità di proclamarla come verità dogmatica, ovvero salvifica, per cui è richiesta l’adesione di fede. A tal proposito chiede che si proceda con grande prudenza, interpellando tutti i vescovi, in modo che l’eventuale promulgazione non susciti divisioni nella comunità ecclesiale, consiglia inoltre di non entrare in troppi particolari come quello della generazione attiva e passiva. La consultazione avverrà l’anno seguente con l’enciclica Ubi Primum. Dei 603 vescovi consultati 546 approveranno l’iniziativa e il dogma verrà solennemente promulgato nel 1854 con la bolla Ineffabilis Deus, che venne limata attraverso ben otto redazioni successive.

Nella Summa Theologiae (II/II, q. I, art. 2, ad II) san Tommaso avverte che l’atto di fede non termina, ossia non è rivolto, all’enunziato, ma alla cosa stessa, ovvero alla realtà che nella formula viene espressa. E di qui la necessità di pensare e vivere il mistero dell’Immacolata, anche alla luce delle obiezioni che i maestri soprattutto medievali rivolgevano alla tesi dogmatica e con attenzione alle loro preoccupazioni. Quale è la res che siamo chiamati a venerare e celebrare? Alla luce delle argomentazioni del dottore sottile, si tratta innanzitutto del primato assoluto di Dio che si esprime nella sua onnipotenza (polo teologico), quindi del carattere reale e radicale della redenzione operata da Cristo (polo cristologico), infine della precedenza della grazia sui meriti (polo antropologico e soteriologico). Se saranno chiare queste dimensioni del dogma, nella nostra predicazione e nella nostra catechesi, eviteremo il rischio di idolatrare Maria e assumeremo la sua profonda umiltà, espressa nel Magnificat e sottolineata con decisione da Martin Lutero nel suo commento (1521) al testo di Luca. Infine, all’obiezione che il dogma non avrebbe un suo fondamento nel dettato della Scrittura, mi sembra si possa tranquillamente rispondere con l’annotazione, suggerita da Paolo VI, e contenuta nella Dei Verbum del Concilio Vaticano II, secondo cui «la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura» (n. 9).

Avvenire