La fede a due polmoni: e la Chiesa varcò il Muro

Sono tanti i Paesi del Mondo che in questo 2012, ormai alla fine, hanno celebrato il ventesimo anniversario delle proprie relazioni diplomatiche con la Santa Sede. La stragrande maggioranza di questi Paesi, ben sedici, nel 1992 proveniva dall’ex blocco comunista e aveva da poco iniziato il proprio cammino verso una nuova stagione politica, con problemi economici, sociali e, in alcuni casi, con drammatiche guerre civili. Artefice di quest’opera di avvicinamento tra Roma e i nuovi Stati fu certamente Giovanni Paolo II, che fece della libertà e dei diritti dei popoli un principio ispiratore del suo pontificato. È giusto però che gli storici tengano conto del grande apporto dato in quegli anni dalla Segreteria di Stato, in particolare dall’allora Segretario, il cardinale Angelo Sodano, coadiuvato dall’arcivescovo Jean Louis Tauran, oggi cardinale e presidente del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso. La celebrazione di questi ventennali sono l’occasione per chiedere al cardinale Sodano, ora decano del Collegio cardinalizio, di ritornare su quegli anni così fitti di impegni a largo raggio e tanto intensi.

Nel 2012 tanti Paesi dell’Est, europei ed extraeuropei, hanno celebrato un ventennio di relazioni con la Santa Sede: Slovenia, Croazia, Bielorussia, Ucraina, Georgia, Armenia, fino al lontano Kazakistan, solo per citarne alcuni. Perché proprio quel 1992 fu un anno tanto fecondo per la Santa Sede?
La storia ha voluto che, dopo lunghi e pazienti contatti informali, che si intensificarono dopo la caduta del Muro di Berlino del ’89, la maggior parte dei rapporti diplomatici si perfezionasse proprio nel 1992. In quel nuovo clima di libertà – per il quale l’Europa poteva tornare a respirare «a due polmoni», per usare una metafora cara a Giovanni Paolo II – la Santa Sede colse l’occasione per portare il suo contributo allo sviluppo dei popoli che si aprivano a una nuova fase politica e per assicurare la libertà religiosa. Ciò obbedì da una parte al desiderio dei nuovi governi di allacciare contatti regolari con la Chiesa di Roma, di cui riconoscevano il grande contributo alla libertà dei loro popoli; d’altra parte corrispondeva al desiderio della Santa Sede di contribuire al rinnovamento spirituale di questi popoli. Così, nel decisivo quadriennio 1989-1992, la Santa Sede ha potuto stringere rapporti diplomatici con ben 28 nuovi Stati: 6 dell’Europa Orientale, 12 sorti dalla dissoluzione dell’ex Unione Sovietica (7 in Europa e 5 in Asia Centrale) e i 3 Stati baltici. Inoltre, tra i nuovi Paesi in cui la Santa Sede ha potuto iniziare la sua presenza, ben 7 erano dell’area balcanica (i 6 dell’antica Federazione Jugoslava più l’Albania, che nel 1992 aprì la sua ambasciata a Roma). Con tale nuova presenza, la Santa Sede ha oggi regolari rapporti diplomatici con tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa, di cui fanno parte anche la Turchia e il Kazakistan, in quanto una parte del loro territorio è nel continente europeo.

Lei ha partecipato alle celebrazioni a Roma per i 20 anni delle relazioni diplomatiche della Santa Sede con Slovenia e Croazia. Una decisione coraggiosa, quella del 1992: le neonate repubbliche si erano proclamate indipendenti da Belgrado l’anno prima, i venti di guerra soffiavano sui Balcani e la Santa Sede fu accusata, con la sua decisione, di aver accelerato lo scontro tra Serbia e Croazia.
Coloro che sostengono che il riconoscimento della Croazia da parte della Santa Sede influì negativamente, o addirittura provocò la guerra, sbagliano. La scelta della Santa Sede fu motivata proprio dalla necessità di far cessare la guerra e le gravi violenze che già erano in atto nella ex Jugoslavia, che a quel punto non esisteva più, nei fatti, come Stato unitario. Inoltre c’era un larghissimo consenso per il riconoscimento della Croazia da parte della comunità internazionale, tanto che l’iniziativa tedesca e della Santa Sede del 13 gennaio 1992 anticipò solo di pochi giorni quella degli altri Stati. È vero che vari esponenti politici degli Usa dubitavano al riguardo, e così pure vari leader politici socialisti europei. Le eventi successivi fecero però vedere l’opportunità di quella tempestiva decisione della Santa Sede. Mi è sempre piaciuta una frase dell’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl, che allora disse: «Talvolta il Signore fa una passeggiata nella storia avvolto da un grande mantello, e fortunato sarà chi saprà cogliere l’occasione ed afferrare quel mantello». Più laicamente altri dissero: si trattò di un sorriso della storia.

E la Slovenia?
Il Paese si era proclamato indipendente nel giugno del ’91 e in appena 6 mesi furono stabiliti i rapporti diplomatici con la Santa Sede, perché il Governo di Ljubljana seppe interpretare il volto cristiano della nazione: in Slovenia il Cristianesimo è presente dal II secolo e la fede è sempre stata radicata nel popolo. Solo con l’avvento del regime comunista si tentò di spezzare i vincoli religiosi e culturali con la Chiesa di Roma. Inoltre, in quel periodo anche a Belgrado davano per inevitabile l’indipendenza della Slovenia. Ma anche su questo i socialisti europei non erano d’accordo e il presidente francese Mitterrand, in un summit europeo, mi ribadì le sue perplessità in merito all’indipendenza della Slovenia dicendomi: «Un piccolo Paese con poche risorse, come può esistere da solo?». Allora gli feci notare che egli era appena tornato da un viaggio ufficiale ad Andorra, durante il quale aveva lodato il modello politico ed economico del piccolo Paese dei Pirenei. Se «piccolo è bello» valeva per Andorra, non doveva valere anche per la Slovenia?

Tra i ventennali di cui parliamo, a far riflettere di più è probabilmente quello dei rapporti diplomatici tra Santa Sede e il Kazakhstan: un’ex repubblica sovietica, dove la stragrande maggioranza della popolazione è musulmana, ma dove viene garantita la libertà religiosa ai cristiani e la presenza della Chiesa è apprezzata.
Il Kazakhstan rimane il caso tipico della trasformazione verificatasi in Europa con il nuovo clima di libertà seguito alla caduta del comunismo. In tale clima anche la piccola minoranza cristiana kazaka, che non raggiunge il 2 per cento della popolazione, può ora svilupparsi. Le diocesi sono oggi 4, con la Nunziatura apostolica nella capitale Astana. Un accordo speciale, sottoscritto nel 1998 fra il Kazakhstan e la Santa Sede, offre anche la base giuridica per una nuova epoca di feconda collaborazione fra Stato e Chiesa. Una volontà di collaborazione sempre ribadita dal presidente Nursultan Nazarbayev fin dal viaggio apostolico di Giovanni Paolo II nel 2001 in Kazakhstan. Certo la legge sulla libertà religiosa impone alcune limitazioni per quanto concerne la presenza di sacerdoti e missionari non kazaki, e alcuni se ne lamentano, ma non è una legge contro i cristiani. Ad esempio, per l’Amministrazione apostolica di Atyrau, il Papa ha nominato un vescovo di nazionalità italiana, il sacerdote milanese Adelio Dell’Oro di Comunione e liberazione, che aveva già lavorato molti anni come missionario in quel Paese.

Il 9 settembre scorso lei, come Legato del Papa, ha consacrato la nuova cattedrale di Karaganda, in Kazakhstan. Cosa l’ha colpita di più?
Sono rimasto molto impressionato da questa nuova cattedrale dedicata alla Madonna di Fatima, costruita in un artistico stile neo gotico, al centro di quello che era chiamato il Karlag, una rete di 26 gulag che durante l’epoca staliniana si estendeva su un’area di 200 chilometri per 300. Questo luogo, che fu di martirio per migliaia di deportati, tra cui tanti sacerdoti cattolici, oggi è un luogo privilegiato dove i fedeli cattolici possono rendere pubblicamente il culto a Dio e ricevere da Lui luce e forza per il loro cammino. È anche significativo che le autorità statali concessero il permesso di costruirla il 13 maggio del 2003, nell’anniversario della prima apparizione della Vergine a Fatima. Durante quest’ultimo viaggio, ho reso anche omaggio ai cinquemila soldati italiani morti in un gulag vicino a Karaganda. Erano alpini della Divisione Cuneense, fatti prigionieri dai russi nella battaglia del Don, nel duro inverno del 1942, e poi deportati in quella steppa desolata dove, nel periodo invernale, la temperatura scende a 40 gradi sotto lo zero.

Che cosa vuol dire «nuova evangelizzazione» per una comunità cattolica vitale ma così minoritaria come quella kazaka?
La comunità cattolica sa di essere minoritaria, ma vuole essere come un lievito di vita spirituale, cooperando con la comunità ortodossa e con i fratelli musulmani per il bene del Paese. Questo è il cammino tracciato da Giovanni Paolo II nel corso della sua visita in Kazakhstan nel 1991 e riconfermato in varie occasioni da Benedetto XVI. A tale consegna la Chiesa in Kazakhstan vuole essere fedele.

Roberto Rotondo – avvenire.it