La domanda al centro del Vangelo della III domenica d’Avvento. E la risposta di Marco Polo ne «Le città invisibili» di Italo Calvino: «Far vivere ciò che inferno non è»

C’è una domanda che viene indirizzata per ben tre volte a Giovanni il Battista nel Vangelo della terza domenica d’Avvento: «Che cosa dobbiamo fare

Così chiedono la folla, i pubblicani, i soldati. È un crescendo di malvagità, per certi aspetti: prima la folla anonima, poi i pubblicani, odiati esattori delle tasse e collaborazionisti dei Romani, infine gli stessi nemici invasori.

Eppure queste tre tipologie diverse di persone, anche i peggiori ricorrono al profeta perché in essi rimane la speranza, o la nostalgia, di un bene, per cui la domanda è per tutti la stessa: «Che cosa dobbiamo fare?»

Le risposte del Battista sono semplici, ordinarie: guardare al povero, rispettare il prossimo, fare bene il proprio dovere.

Lo stesso interrogativo, in fondo, abita anche l’imperatore Kublai Khan, nel finale de Le città invisibili, uno dei testi più noti e al tempo stesso meno facili di Italo Calvino.

Nel racconto Marco Polo descrive al sovrano dei Tartari 55 città, reali o frutto della sua immaginazione. L’ultima è Berenice, città nascosta, abitata da ingiusti, in cui però ci sono anche semi di giustizia. Questo gioco a incastro è duplice, poiché nella stessa Berenice giusta si possono trovare semi di malvagità, in un mondo dai confini labili tra bene e male. Nessuno, sembra dire Calvino, è totalmente buono o cattivo: in potenza è presente sia il bene che il male dentro ogni città, dentro ogni cuore umano, di ieri, di oggi e di domani. Infatti tutte le città future, tutte le Berenici future, luminose o tenebrose, sono già presenti nell’adesso della vita.

Che cosa dobbiamo fare allora? Se tutto è già presente, se non esiste la città perfetta, se nel bene si può scorgere già la radice del male, cosa dobbiamo fare?

Dice l’imperatore, in una nota di pessimismo:

«Tutto è inutile, se l’ultimo approdo non può essere che la città infernale, ed è là in fondo che, in una spirale sempre più stretta, ci risucchia la corrente.»

Una conclusione legittima, dettata dal buon senso. Inutile agire, se la strada è tracciata e la meta è l’abisso.

A questa visione si oppone Marco Polo, chiamando in causa la responsabilità individuale, come il Battista nel Vangelo, perché di fronte al male si può scegliere di ignorarlo, tollerarlo, oppure fare quello che male non è, facendo così pendere la bilancia dalla parte del bene:

«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio

Dare tempo e spazio a ciò che non è inferno: non è facile, serve sforzo, serve capacità di discernimento, serve libertà.

Questo è il richiamo che anche il Battista rivolge a coloro che lo accostano, ed è quello che fa lui: dare spazio alla Luce, dare spazio alla «buona novella», perché le tenebre possano ritirarsi e l’Inferno possa conoscere la sconfitta.

vinonuovo.it

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