Intervista a Vecchioni. Dall’Infinito leopardiano al perdono del Papa

Dall’Infinito leopardiano al perdono del Papa

Nel nuovo disco del cantautore milanese un brano dedicato a papa Francesco. «Le mie idee coincidono con le sue e anche se provengo da una tradizione laica passo dopo passo ho scoperto lo spirito Dio e l’Aldilà ci sono» C’è una colonna sonora ideale per aprire l’anno nuovo, ed è Canzone del perdono, il brano clou del nuovo album di Roberto Vecchioni dal titolo L’infinito( DME / Artist first). Un brano che il cantautore milanese dedica apertamente a papa Francesco «perché non c’è niente nella vita di un uomo, / niente di così grande come il perdono, / niente così infinito come un perdono». In un disco intimo, dai tocchi commoventi, che è un vero diario molto personale in 12 capitoli che parla della forza della vita, passando da Italo Calvino a Giulio Regeni, da Alex Zanardi a Leopardi in cui compare un duetto con l’amico Francesco Guccini e con Morgan.

Vecchioni, nei suoi nuovi brani si colgono molti spunti spirituali: come mai il titolo L’Infinito?
Il primo spunto per il titolo deriva dall’assurdità della storia di Leopardi. La vita è da amare comunque in ogni caso. Prendiamo l’esempio più astruso, ovvero Leopardi e il suo pessimismo. Eppure i suoi giorni a Napoli segnano una tregua col dolore, da quello diventa emozionale e anche universale il suo senso dell’amore per la vita. Come disco, L’infinito ha un senso spirituale, non ha nulla di materiale.

In ogni brano si sottolinea l’importanza della vita, raccontando di uomini e donne che hanno un afflato superiore.
Nel desiderio di andare oltre le finzioni, la superficie, le incomprensioni, c’è il desiderio di abbracciare la vita. Vivere è un percorso continuo di felicità se sai a badare a te stesso. Se hai un riferimento valido, una fede integra nella persona umana, non c’è destino che possa combatterti e batterti.

Perché ha dedicato il brano Perdono a papa Francesco?
Perché penso fortemente che le nostre idee coincidano. E poi perché io vengo da una tradizione laica e lentamente, passo dopo passo, ho scoperto lo spirito. Infine perché per me comunque questo mondo è importantissimo viverlo non solo come una speranza dell’altro mondo, ma vale la pena viverlo anche se non ci fosse Dio, anche se non ci fosse un Aldilà. Meno male che ci sono. C’è una frase di Pasternak che io eleggo a principio, cioè che questa vita non è una sala d’attesa, ma è già di per sé un salone luminoso.

In tutto questo, perdonare che significato ha?
Devi perdonare comunque, non solo perché ci sono il bene e il male o perché ci sarà un Aldilà dove sarà perdonato a te quello che hai perdonato. Perdonare è l’atto più alto, più dignitoso, più grande che possa fare un essere umano verso un altro essere umano. Vuol dire aver capito fino in fondo la vita. Io ho sempre perdonato. Non sono stato qualche volta perdonato (ride ndr). Penso che nell’imperscrutabile azione che hai fatto tu, ci deve essere qualcosa in cui credi. Per cui anche se io non la capisco, devo almeno darti il beneficio del dubbio.

Vecchioni. che bilancio fa dell’impegno politico dei cantautori della sua generazioni a confronto con i tempi di oggi? Viviamo periodi strani e neri. Di impegno canto anche nel brano Formidabili quegli anni. Più che una storia del ’68, è un ricordare come ero io in quegli anni, con tutte le gioie addosso, con tutte le speranze. E molte si sono realizzate. I primi anni all’università con tutte quelle speranze e quei sogni sono stati bellissimi per me, ho avuto una gioventù meravigliosa. Poi la violenza e tutto il resto, è ovvio che ci hanno fatto male a tutti. Ma l’inizio è stato fantastico. Non potevo dimenticare quel periodo, non l’avevo mai descritto e volevo farlo.

Di quel ragazzo oggi cosa rimane?
Quel giovane Roberto pieno di energia me lo tengo dentro. Quel Pinocchietto è una persona che non è mai sparita, che è rimasta sempre dentro di me. È un po’ il fanciullino del Pascoli, il fanciullino che hai dentro che non sbaglia mai nella sua autenticità.

Lei come insegnante si è sempre occupato dei giovani. Quanto ha dato loro e quanto ne ha guadagnato?
I miei studenti mi hanno dato tantissimo. Io ho fatto 38 anni al liceo e 18 all’Università e ho dato tutto me stesso. Entravo in classe per distruggermi e uscirne senza più respiro. Perché bisognava mettere dentro ai ragazzi la possibilità di altre certezze, di certezze che esistano e che non siano nebulose, di qualcosa cui aggrapparsi. Quelli che si chiamano valori, che in realtà non sono valori ma sono pesanti pietre, montagne da scalare per arrivare in cima. Sono verità, altro che valori.

Verità anche negli studi classici e umanistici di cui ribadisce il valore in un’epoca ipertecnologica come questa…
Non posso combatterlo, il tecnicismo. In realtà sta dominando sull’uomo, non è l’uomo che domina la tecnica. E questo è il dramma. Invece l’umanesimo è tutta un’altra cosa. È l’uomo che domina, è l’uomo che si conosce con l’altro uomo, che si capisce attraverso l’arte, la cultura. La parola cultura è sfuggita completamente dall’orizzonte, non esiste più. Ma non esiste tecnica senza cultura. Se uno non ha cultura di base, non ha nemmeno la tecnica. Noi non potremo mai concepire e amare questa vita se non rinvanghiamo i greci e i latini, tutto quello che c’è stato dato ed è presentissimo in noi ancora oggi, in tutti i campi, non solo nella letteratura.

Con questo sguardo lei affronta anche l’attualità, raccontando in Giulio il caso Regeni dal delicato punto di vista della madre.
In effetti è molto strano come ritratto. L’avevo già fatto qualche anno fa sulla madre di Che Guevara nel branoCelia de la Serna. Io sono molto devoto alle madri, mi piacciono tutti i sacrifici che fanno, la stragrandezza che hanno. Non posso concepire che una madre possa pensare a un figlio morto. È così forte il senso autoillusorio che nella canzone riesce a ricordalo sempre vivo.

C’è anche una canzone dedicata a Cappuccio Rosso, la ragazza turca che lottava per la causa curda, morta combattendo in Siria contro il daesh.
Ayse Deniz Karacagil, Cappuccio Rosso, è un simbolo di quanto le donne siano fortissime o di quando debbano essere forti e credere in se stesse. E Ayse crede nella sua patria e in se stessa, lo fa con amore, ed è anche una lettera d’amore quella che ho messo in musica.

A proposito di amore, come sta passando queste festività?
Le passo in famiglia. Non c’è niente di più giustamente retorico del Natale: figli, nipoti, alberi e regali. Quelli che fanno gli snob e che non lo fanno, mi fan ridere…