In cerca dell’intensità: INTERMEZZI BEETHOVENIANI

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12 settembre 2020

«Non lasciatevi spaventare troppo da quei trilli, potrete eseguirli anche separatamente». È un Beethoven poco più che ventenne quello che scrive queste raccomandazioni a Eleonore von Breuning, futura moglie dell’amico Franz Wegeler e sua allieva, alla quale dedica le accluse variazioni sull’aria mozartiana Se vuol ballare da Le nozze di Figaro. Beethoven è particolarmente legato alla famiglia von Breuning che lo ha accolto e coccolato come un figlio negli anni seguenti la morte della madre avvenuta nel 1787, quando il futuro autore dell’Eroica era appena diciassettenne. Era una famiglia dell’alta borghesia di Bonn — Elene von Breuning, madre di Eleonore era vedova di un consigliere di corte del principe elettore — in cui si parlava di letteratura, ci si cimentava in brevi componimenti poetici, si respirava insomma un’aria di creatività che stimolava il giovane musicista. Se quindi vogliamo avvicinarci all’essenza umana del genio che ha cambiato per sempre la concezione, la fruizione e la funzione della musica dobbiamo partire da questi anni in cui il giovane Beethoven maturava quel desiderio di calore, intimità, di legame e stabilità affettiva che gli sarebbe sempre mancato e avrebbe costantemente rincorso negli altri tra sbocchi d’ira, delusioni e idealizzazioni, con quei repentini sbalzi di umore che lo portavano a pentirsi il giorno seguente una lite e a profondersi in torrenziali e ridondanti lettere di scuse. In questo caso Beethoven scrive da Vienna rievocando il bel periodo della gioventù a Bonn rimpiangendone nostalgicamente l’ambiente in contrapposizione a quello viennese dove già intravvede ostacoli e nemici della sua carriera. Per tutta la vita il genio di Bonn fu condizionato dal sospetto che chi ascoltava le sue improvvisazioni le avrebbe poi rivendute in seguito come proprie e questo ne limitò molto le performance pubbliche all’epoca molto in voga nei salotti della capitale dell’impero. Non è stato quindi un bambino prodigio, né uno studente particolarmente acculturato, né un abile frequentatore di salotti Beethoven, ma un giovane che sondava la vita attorno a sé in cerca dei segni dell’intensità umana, di una superiore e più intimamente sincera manifestazione di sentimenti e di affetti che avrebbe costituito la nota più caratteristica della sua musica: una musica che attraversa il suo corpo, si imbatte in quel grumo di dolore fisico ma invece di comunicarsi in malinconie decadenti o elegiache lamentazioni chiede e ottiene dai suoni di vincere quel dolore senza camuffarlo, esponendolo assieme alla forza vitale che quel dolore comprende e insieme irride nella convinzione che né i limiti, né le menomazioni fisiche, neanche la morte stessa possano avere l’ultima parola.

di Saverio Simonelli  / Osservatore