Il silenzio si rivela nel Sabato Santo

Sabato santo, giorno del grande silenzio. Ambivalente, nella sua voragine. Sintesi emblematica dell’assenza di Dio, della Sua morte gridata da Nietzsche: interpretato nella Sua apparenza, non nella portata profonda di un’affermazione di tutt’altro respiro. Può morire di Dio l’aspetto caduco a cui l’uomo spesso si richiama, e può emergere da questa morte la realtà fondante, luce nella tenebra umana. Che solo dal morire di ogni pseudo-consapevolezza di Dio traluce, assoluta e fiammeggiante.

L’affermazione nietzchiana, letta nel suo primo senso, è vissuta da noi oggi come tragica esperienza. Anche più angosciante perché neppure avvertita tragica; accolta piuttosto come ovvia. I brevi giorni terreni corrono verso il vuoto finale, in un tempo vissuto dai saggi con lucidità coraggiosa e amara, riempito invece da molti di luccicanti apparenze, rincorse in una frenetica fame di possesso, ingordo desiderio che la morte arresta, col suo soffio gelido. Il grande silenzio di oggi copre l’angoscia di chi vede nel vuoto l’ultimo approdo, e annulla la frenesia di chi cerca di negarlo in una dispersione logorante.

Ma il grande silenzio ha anche tutt’altra voce. È accoglienza di chi non si arrende al nulla, e leva il capo in una ricerca, o piuttosto un’attesa mite e paziente. A questi – e consapevoli o meno sono i più i piccoli, i poveri a cui è data la percezione del mistero – il silenzio di oggi parla. L’oscurità che ci circonda e a volte ci soffoca è la nostra presunzione, altéra e apparentemente scaltrita, e l’incapacità di resa alla fondamentale fragilità umana, che tutti ci accomuna e ci fa poveri; la negazione, più o meno consapevole e sofferta, del mistero che ci contiene e ci rende meno incapaci della fondamentale solidarietà con ogni vivente: la compassione.

A tanti veri poveri – di presunzione, di pretese, perfino di domande – il silenzio si rivela parola di Dio, che in Gesù è morto per amore e muore con ogni uomo nella fatica, lo scacco, la tensione del vivere. Gesù che scende agli inferi, le radici più oscure e piagate della sostanza umana, ha condiviso e condivide il nostro cammino arduo, felice ma scosceso. Silenzio del Sabato Santo, morte di Dio. Apparente, però: nascondimento per una rivelazione. La povertà di Dio che muore nel suo Cristo sposa l’infinita povertà nostra, il nostro male di vivere, il nostro peccato: per liberarcene. Nell’inferno dell’angoscia, della solitudine umana, della tragedia di tante vite Cristo è sceso e scende, muore. In tutti i poveri, i disperati della terra, nell’angolo oscuro di ogni coscienza tentata dall’angoscia.

Se accettiamo la nostra debolezza costitutiva, se l’amiamo in noi per accoglierla e soccorrerla negli altri, il buio di oggi – e di sempre, perché il mistero è uno – si illumina, il silenzio si fa voce di speranza.
Ma non «è venuto il momento di cantare una esequie al passato» (Alda Merini).. Passato e futuro s’incontrano nell’oggi, il presente di Dio in Gesù. Sabato è cerniera perenne tra la croce e la risurrezione. È seme di luce nel buio. Solo morendo a tanti idoli umani incontriamo Gesù. Solo entrando nel grande silenzio dell’io lo troviamo in noi vivo, nel Suo morire per risorgere con noi. Solo donando la nostra breve giornata ai fratelli – a Lui in loro – essa s’illumina di immenso, di Lui.
Un’antica omelia sul Sabato Santo recita: «Oggi sulla terra c’è grande silenzio e solitudine… la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato».

Gesù dorme vegliato in cuore dalla Madre. Sabato Santo, giorno di tutti, ma in particolare di lei, Maria. Quindi della donna. Sentinella silenziosa accanto alla vita spenta, la Madre è presso la tomba, sicura che la vita, accesa in lei come primizia, si riaccenderà per tutti gli uomini. Maria veglia l’umanità, la comunità del Figlio, la Chiesa. Icona dolce e fortissima di attesa e di speranza.
Domani è Pasqua.

Emanuela Ghini – avvenire