Il problema di Dio riguarda oggi non tanto l’ateismo (ammesso che di ateismo si possa parlare), ma l’indifferenza verso Dio

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SETTIMANANEWS
GIORGIO GUALDRINI: Trittico delle cose ultime – Grünewald, Holbein, Raffaello, Pazzini editore, Rimini 2023, pp. 560 + illustrazioni, € 32,00, EAN: 9788862574303.

 

Eppure, c’è una realtà umana che ne evoca in qualche modo l’idea, e cerca risposte nella religione, oltre che nella filosofia, nella letteratura, nell’arte o nella stessa scienza medica. Questa realtà umana è il dolore.

Credo, anzi, che proprio nel dolore l’uomo si ponga il problema di Dio e il rapporto con lui, perché nel dolore è il senso della vita e il momento in cui egli sperimenta la fede o la interroga. In tal senso, il dolore potrebbe restituire quel valore del sacro nella vita, che oggi sembra essersi eclissato; e le religioni potrebbero esserne una terapia.

Nel cristianesimo c’è un’icona straordinaria del dolore: Cristo: quel Cristo che pure un giorno disse con parole dolcissime: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite ed umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11,28-29).

Possiamo credere o no che egli sia il Cristo, figlio di Dio e Dio lui stesso; ma per tutti è il crocifisso, l’uomo dei dolori.

L’arte lo ha raffigurato in ogni modo, ponendolo alla nostra contemplazione, come momento di condivisione del dolore suo e di consolazione del nostro; ha raffigurato in lui il dolore e la solitudine del dolore. Crocifissioni, Pietà, Compianti di Cristo morto esprimono la sua umanità e la nostra condizione di creature. La pietosa coralità dei Compianti è la coralità del dolore condiviso.

Il libro di Gualdrini
Questo, soprattutto, mi sembra di poter cogliere nel bel libro di Giorgio Gualdrini: Trittico delle cose ultime – Grünewald, Holbein, Raffaello, nel quale egli esamina tre capolavori dell’arte universale: la Crocifissione di Isenheim di Grünewald, il Cristo nella tomba di Holbein il Giovane, e la Madonna Sistina di Raffaello.

La Crocifissione e il Cristo nella tomba sono due immagini strazianti del dolore e, in Holbein, della tremenda solitudine d’un corpo senza compianto; la stessa che Gesù provò la sera prima nel Getsemani, di fronte ai discepoli dormienti.

In ambedue, il Cristo sembra vero; e questo lo rende attraente, anche nello strazio in cui è dipinto, perché esprime appunto «quella universalità del patire che sfugge alle gabbie di ogni particolarismo nazionale e di ogni confine stilistico. L’orrore della violenza concretamente inflitta all’altro uomo può infatti oltrepassare anche la più ardita immaginazione» (p. 52 sg).

I malati dell’ospedale degli antoniti lo osservavano, e forse elevavano a Dio una preghiera di misericordia e di pietà.

Artisti, filosofi, letterati, musicisti, sono stati segnati in diverso modo da questi capolavori; e il ricco riferimento ad essi che Gualdrini ne fa, è parte integrante di tutto il suo discorso sulla ricezione di un’opera nel tempo e nelle persone. Dipinti che hanno generato in alcuni eccezionali osservatori lunghi momenti di silenzio e di meditazione, turbamento, pensieri, come una presenza interiore non più eliminabile, perché l’immagine genera sempre una catena di pensieri.

Persone – scrive Gualdrini – che rimanevano un intero giorno davanti ad essi, lasciandone poi traccia nelle loro opere o descrizioni, a volte altrettanto crude.

Gualdrini intreccia una figura ad un’altra, un’idea a un’altra, come tanti rivoli che convergono verso quel trittico. Tali riferimenti, perciò, non sono fine a sé stessi, ma integrano tutto un discorso artistico-spirituale, secondo la sensibilità artistica e religiosa di ciascuno, da esso comunicata.

Il libro è, così, anche una storia dell’arte religiosa europea, che spiega, per esempio, il passaggio da un periodo all’altro di tendenze artistiche, o il rapporto artistico fra oriente e occidente. Ed è anche una sorta di diario di viaggio di Gualdrini stesso appassionato d’arte, in giro per musei e chiese d’Europa.

È vero, infatti, ciò che egli dice: che un conto è vedere dal vivo un’immagine, un altro vederla riprodotta.

Intanto, il suo libro accompagna anche noi nei musei e nelle chiese da lui visitate, e lo leggiamo con la stessa passione e sentimento con cui è scritto. Un appassionato visitatore di chiese, non le visita con lo spirito del turista, perché le chiese non sono musei. Le opere ivi conservate sono strettamente legate al culto e alla fede, oltre il tempo in cui sono state realizzate.

Ed è insopportabile vedere visitatori che scattano loro una foto e vanno via indifferenti. Si è perduta ogni sensibilità artistica e umana. Se, infatti, di fronte a un Christus patiens o a una Pietà o a un Compianto non abbiamo nessuna sensibilità, non l’abbiamo neanche di fronte al dolore reale, che l’occhio televisivo ci mostra quotidianamente nell’indifferenza generale.

Grünewald e Holbein
Il Crocifisso di Grünewald e il Cristo di Holbein sono le più eloquenti immagini della kènosis del Figlio di Dio. Vi è riassunta tutta la violenza fatta su quel corpo: da quella dei soldati romani nel cortile del Palazzo del Pretorio di Gerusalemme, a quella lungo il Calvario, fino alla crocifissione e al colpo della lancia. Se in esse c’è orrore, è l’orrore di ogni persona dilaniata dalle guerre o dal terrorismo.

In questo periodo di assurdità delle guerre, la riflessione su queste immagini, potrebbe essere l’inizio di un’idea di pace, la quale non ci sarà mai, se non per una trasmutazione di valori.

Il mondo ignora la sofferenza di Cristo; e la sofferenza, che dovrebbe generare pietà, genera altra violenza. Noi possiamo sopportare il dolore quando è naturale, non quando è assurdo. Se le immagini del Cristo di Grünewald e di Holbein attraggono, è perché Cristo «si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori» (Is 53,4); e noi lo sentiamo vicino. Può mitigare o no la nostra sofferenza, ma almeno ce ne fa capire il senso.

Solo allora possiamo comprenderci a vicenda, ed evitare il dolore inutile. Solo chi ha conosciuto il dolore è capace di pietà.

Il bellissimo racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, si apre con la morte di costui. Intorno al feretro ci sono i colleghi di lavoro, il cui primo pensiero si concentra «sulle implicazioni che quella morte avrebbe avuto su eventuali trasferimenti o promozioni che riguardavano loro stessi o i loro conoscenti». Per costoro, la morte è la “fine” della vita: Ivan Il’ič non c’è più; il suo posto passa ad un altro.

Per il credente non è così. La morte non è la fine della vita: è un “trapasso”, inizio d’una vita altra; anche per un non credente, perché la morte si può accettare – dice Ferrarotti – solo se si pensa a “un oltre la morte”. Il credente sa che il dolore che lo accompagna in questa vita, scomparirà nella Gerusalemme celeste, dove Dio «asciugherà ogni lacrima, e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).

Di fronte a quei dipinti, molti hanno dubitato della fede nella risurrezione: quel corpo così ridotto non poteva risorgere. Indubbiamente – dice Gualdrini – ci sono volti del Cristo risorto segnati non dalla luce di gloria, ma ancora dal dolore e dalla tristezza.

In Tre icone, parlando del Risorto di Sansepolcro di Piero della Francesca, Massimo Cacciari scrive: «Altrettanto eloquenti sono le sue labbra serrate; altrettanto profonda nel suo sguardo la traccia di una “geniale” malinconia. La risurrezione non vale affatto per lui come “compimento”. Diritto, egli sembra affrontare un altro cammino, di sopportare altri gioghi […]. A che la sua fatica, il tormento che l’apparire gli è costato, a che aver attraversato peccato e inferno […], a che tutto questo se ora soltanto cecità e sonno ne accolgono la parusia? Risuona questa domanda nello sguardo del risorto» (citato da Gualdrini a p. 128).

E Gualdrini: «Sia il Cristo nella tomba di Holbein che la Crocifissione di Grünewald mi sono sembrate soglie oltre le quali si apre un abisso le cui estremità possono essere disegnate dalla negazione oppure dall’affidamento alla promessa che Gesù aveva fatto ai discepoli fino a un attimo prima dubitanti: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo (Mt 28,20)» (p. 193).

Distaccati come siamo oggi dalla considerazione del male nel mondo, questi due dipinti non suscitano più nessun tipo di reazione psicofisica, come accadde a Dostoevskij di fonte al Cristo nella tomba di Holbein. Eppure, solo la fede nella risurrezione dà senso a quel corpo. Accanto alla crocifissione, c’è la risurrezione; e non c’è sofferenza senza uno spiraglio di luce, com’è nella Trasfigurazione di Raffaello, dove, sul piano inferiore segnato dalla sofferenza, s’innalza quello luminoso del Cristo trasfigurato. Solo la fede «può aggiungere un significato pasquale a un’immagine che, in sé, resterebbe consegnata al dubbio sotteso alla domanda: perché anche Gesù è finito in questo modo?» (p. 179).

Chi vive nel dolore, chi il dolore lo ha in casa o lo sperimenta su sé stesso, non sussulta di fronte a questi dipinti, perché vi si riconosce; e la fede (o la sua negazione) dipende dal modo di porsi di fronte ad esso, dal modo di vederne o meno nel Cristo la figura esemplare.

“La Madonna Sistina” di Raffaello
Non capiremmo l’analisi di Gualdrini del Cristo di Grünewald e di Holbein, se non tenessimo presente l’ultimo stupendo tassello del trittico: la Madonna Sistina di Raffaello, «cosa veramente rarissima e singulare» (Vasari), di fronte alla quale più che la devozione, mi sembra sia prevalsa nei visitatori la considerazione della bellezza artistica.

Questo dipinto, in realtà, fu al centro, nel 1800, del dibattito tra classicisti e romantici: se la pittura e l’arte del Rinascimento era classica o devota. «Era sconcertante – dice H. Belting (Immagine e culto; Carocci, Roma 2023, p. 673) – incontrare una pittura religiosa che sembrava rappresentasse solo gli ideali dell’arte nel senso dell’Antichità, come se le immagini degli dèi del passato fossero state rivestite in abiti cristiani».

E allora, questi dipinti in che modo si pongono dinanzi agli occhi di chi li osserva? Questo l’argomento del capitolo quinto dedicato alle icone e al problema ad esse legato; problema che ha costituito tanta parte della storia delle Chiese d’oriente e d’occidente sul loro culto.

Quando vediamo questi dipinti, non ne ammiriamo solo l’arte, ma anche ciò che di divino ci trasmette. Le immagini non sono mute. Si comprende allora il sentimento di Dostoevskij di fronte al Cristo nella tomba di Holbein, o il sostare per ore davanti alla Crocifissione di Grünewald.

«Mentre l’icona orientale resta il “luogo teologico” di una immutabile Presenza – scrive Gualdrini (p. 205 sg.) – l’immagine sacra occidentale diviene un luogo fisico nel quale la razionalità e l’emozione dell’osservatore si possono incontrare facendogli a volte piegare le ginocchia, a volte sussurrare una preghiera, altre volte suggerire la “domanda ultima destinata a restare senza una risposta certa». Questo è lo spirito che deve avere chi entri in una chiesa e si ponga davanti alle sue bellezze artistiche, perché – ripeto – le chiese non sono musei, ma luoghi di culto, dal quale non si possono separare le immagini.

La bellezza della Madonna Sistina ha affascinato anche «gli sguardi disincantati degli scettici che non vedevano affatto in questa immagine l’evocazione di qualcosa di soprannaturale o di moralmente superiore» (p. 369). E la sua bellezza sembra contrastare con il Cristo di Grünewald e di Holbein. Non è così.

Dopo che san Bernardo ha descritto a Dante la disposizione dei beati nella candida rosa, lo invita di nuovo a contemplare Maria: «Riguarda omai ne la faccia che a Cristo / più somiglia, ché la sua chiarezza / sola ti può disporre a veder Cristo» (Paradiso, XXXII, 85-87) – gli dice. La bellezza di Maria somiglia a quella del Cristo, come ogni figlio alla madre.

Com’era il volto di Cristo? Non lo sappiamo, ma due testi biblici in particolare sembrano darcene una descrizione.

Il primo è di Isaia, e dice: «Non ha apparenza, né bellezza per attirare i nostri sguardi; non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo di dolore che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevano la stima. Eppure, egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori, e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità […]. Maltrattato, si è lasciato umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca» (Is 53,2-7).

Il secondo testo, è il salmo 45,3-5: «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia, ti ha benedetto Dio per sempre. Cingi, prode, la spada al tuo fianco, nello splendore della tua maestà, ti arrida la sorte, avanza per la verità, la mitezza e la giustizia».

Due testi apparentemente contraddittori; contraddizione che viene risolta, se ci riferiamo a una bellezza spirituale, risplendente nella kènosis di Cristo. Questo fanno, per esempio, Origene e Agostino.

Scrive Agostino: «Per sostenere la tua fede Cristo s’è reso deforme, mentre rimane eternamente bello […]. E noi lo abbiamo visto e non aveva bellezza né attrattiva, ma il suo volto era repellente e deforme la sua posizione. Questa è la sua potenza […]. La deformità di Cristo ti rende famoso. Se, infatti, egli non avesse voluto essere deforme, mai tu avresti riacquistato la forma divina che avevi perduta. Era dunque deforme quando pendeva dalla croce, ma la sua deformità costituiva la nostra bellezza» (Sermoni, 27, 6; 17). Della bellezza del Cristo parla nella prefazione al libro di Gualdrini l’arcivescovo di Modena Elio Castellucci.

Raffaello ha pensato per quest’opera – ritiene Gualdrini come ipotesi più attendibile – a «una finestra che avrebbe esaltato l’effetto sorpresa determinato dalle tende sollevate in modo tale da permettere ai presenti di veder apparire, in quel vano aperto verso il cielo, la Madonna con in braccio il bambino, trasformando, se così si può dire, un manufatto artistico inanimato in qualcosa di vivente e capace di manifestare una relazione tra “l’aldiqua e l’aldilà”» (p. 342).

Maria è ianua coeli, colei che ha riaperto le porte del cielo dopo il peccato originale. E se la croce è il culmine della Redenzione, Maria ne è l’inizio: «l’albergo dove ’l celestial rege entrar dovea» (Dante, Convivio, IV: V, 5), colei che vi ha cooperato, eletta dal Figlio lì, da quella croce, madre dei credenti.

E allora, dovunque venga collocata una sua icona, possiamo rivolgerle in segreto la nostra preghiera. In occasione del VII congresso mariologico-mariano internazionale svoltosi a Roma nel 1975, Paolo VI disse: «Maria è la creatura “tota pulchra”; è lo “speculum sine macula”; è l’ideale supremo di perfezione che in ogni tempo gli artisti hanno cercato di riprodurre nelle loro opere; è “la Donna vestita di sole” (Ap 12,1), nella quale i raggi purissimi della bellezza umana si incontrano con quelli sovrani, ma accessibili, della bellezza soprannaturale».

GIORGIO GUALDRINI: Trittico delle cose ultime – Grünewald, Holbein, Raffaello, Pazzini editore, Rimini 2023, pp. 560 + illustrazioni, € 32,00, EAN: 9788862574303.