Il pensiero russo

di: Giordano Cavallari (a cura)

pensiero russo

Il professor Silvano Tagliagambe, studioso del pensiero russo a cavallo dei due secoli scorsi, è autore del volume Dal caos al cosmo. Introduzione al cosmismo russo, Sandro Teti editore, 2021 (ha collaborato all’intervista Marco Bernardoni).

  •  Professore, lei è vissuto in Russia?

Sì, in passato, ho studiato a Mosca per un anno e mezzo. Questo mi ha aiutato a cogliere meglio alcune caratteristiche del pensiero russo.  Ad esempio, la prevalenza della dimensione dello spazio sul tempo – nel pensiero russo – viene dal vissuto fisico della geografia della terra russa.

La Russia è una vastissima pianura senza rilievi montuosi significativi al suo interno. Si estende dal Mar Bianco al Mar Nero, dal Baltico al Caspio, senza barriere naturali. Le caratteristiche fisiche del territorio invitano al viaggio, allo spostamento, con facilità. Ed in effetti il vissuto dell’uomo russo – così come il suo pensiero – è caratterizzato da una sorta di nomadismo, ossia di pulsione al viaggio in grandi spazi.

Da ciò quella propensione al volo che, nel libro, ho ravvisato. Il volo è divenuto perciò, dal ’900, il modo di abitare dei russi la propria terra, mentre la conquista dello spazio – quello che io ho definito il cosmismo inteso come riflessione di tipo cosmico globale – il suo istintivo sviluppo, quale ben appare in autori quali Ciolkovskij.

  • Nell’introduzione nel suo testo “Dal caos al cosmo”, lei anticipa un’altra caratteristica importante del pensiero russo, almeno negli autori presentati: lo sguardo integrale.

Il pensiero degli autori russi di cui mi sono occupato – con la loro teologia intrinseca – è orientato alla completezza dell’umano. Si badi: alla completezza o interezza, non alla perfezione. La completezza – cel’nost -, secondo questi autori, è aspirazione propria della natura umana, in quanto natura capace di elevarsi in virtù di una grazia elevante, o meglio – in termini più aderenti agli autori stessi – per effetto della divinizzazione della natura umana sino alla sua maggiore somiglianza alla natura divina.

Tale completezza – attraverso la creatività ricevuta e trasmessa dall’umano – è in grado pure di penetrare l’ambiente naturale. In tal senso, un autore come Vladimir Vernadskij può parlare della trasformazione della biosfera in noosfera, ossia di trasformazione operata dall’umano, con la scienza e la tecnica, dell’ambiente geologico e biologico. L’ambiente naturale viene trasformato dal pensiero umano e dalla sua intelligenza.  Vernadskij giunge a coniare perciò l’espressione cefalizzazione dell’universo.

Mentre un altro autore – Pavel Florenskij – giunge a parlare di pneumatosfera, ossia di un ambiente trasformato non solo dalla scienza, dalla tecnica, dall’arte o dalla letteratura, ma anche dalla religione. I valori spirituali veicolati dall’uomo sono infatti in grado, secondo Florenskij, di penetrare la materia, al punto da caratterizzarla sempre più: così l’evoluzione naturale per Florenskij non è da intendersi quale mero processo biologico e neppure solo culturale, bensì pure quale processo spirituale.

La conoscenza umana non può pertanto prescindere dalla completezza o interezza del tutto. Non possono essere operate separazioni del sapere tra scienza, arte, filosofia o teologia. L’intero complesso della cultura umana va fatto interagire. Ne consegue che non può darsi parcellizzazione e specializzazione esasperata del sapere, pena la perdita della consapevolezza della tensione fortemente unitaria che caratterizza l’universo.

La divinizzazione
  • In quali radici affonda il concetto di divinizzazione nel pensiero russo?

Centrale è il ruolo della divina liturgia nella teologia della Chiesa ortodossa, così come indispensabile è il riferimento alla tradizione monastica e alla scrittura delle sante icone. Ricordiamo la luce taborica manifestatasi, secondo gli ortodossi, sul monte Tabor, per effetto dell’interazione tra luce increata e luce creata, sulla scorta delle riflessioni di un autore importantissimo, per il pensiero ortodosso russo, quale Gregorio Palamas (1296-1359).

Da una parte, la luce taborica dilata lo sguardo degli apostoli, rendendoli capaci di vedere per la prima volta la luce increata nella divina-umanità di Gesù, dall’altra, trasforma effettivamente le vesti e il corpo reale di Gesù. Luce increata nella luce creata. Nell’interazione tra luce increata e luce creata avviene dunque la divinizzazione o deificazione dell’umano e dell’ambiente tutto.

  • Quale ricezione ha avuto il concetto di divinizzazione in occidente?

Il concetto è stato certamente ripreso anche in ambito cattolico: basti pensare alla Orientale lumen di Giovanni Paolo II, il papa slavo. Voglio leggerne un passo: “Nella divinizzazione e soprattutto nei sacramenti la teologia orientale attribuisce un ruolo tutto particolare allo Spirito Santo: per la potenza dello Spirito che dimora nell’uomo la deificazione comincia già sulla terra, la creatura è trasfigurata e il Regno di Dio è inaugurato” (n. 6).

E ancora: “Nell’esperienza liturgica, Cristo Signore è la luce che illumina il cammino e svela la trasparenza del cosmo, proprio come nella Scrittura. Gli avvenimenti del passato trovano in Cristo significato e pienezza e il creato si rivela per ciò che è: un insieme di tratti che solo nella liturgia trovano la loro compiutezza, la loro piena destinazione. Ecco perché la liturgia è il cielo sulla terra e in essa il Verbo, che ha assunto la carne, permea la materia di una potenzialità salvifica che si manifesta in pienezza nei sacramenti” (n. 11).

A me appare piuttosto evidente, in queste parole, l’influenza del pensiero di cui sto parlando e, in particolare, di un autore quale Pavel Florenskij. La cogliamo nell’idea del Verbo che ha assunto la carne umana così permeando la materia di una potenzialità salvifica, cioè di una spiritualità in grado di trasformare la biosfera in noosfera e quindi in pneumatosfera. Peraltro, esplicita è la citazione del “cielo sulla terra”, nota espressione di Florenskij da opere come “La colonna e il fondamento della verità” e “La filosofia del culto”.

  • Il cielo si abbassa o la terra si innalza? Qual è – figurativamente – il movimento contenuto in questo pensiero?

Nicola Cabasilas (1322-1392) – altro importante autore per il pensiero ortodosso russo – ne “La vita in Cristo” ha scritto: “Innestati in Cristo, gli uomini diventano dei e figli di Dio. La polvere è innalzata…”. In queste parole sono compresi due movimenti, in un solo movimento, in realtà: di Dio che, incarnandosi in Cristo, discende verso il basso – sin negli inferi -, e dell’umanità che, innestandosi in Cristo-Dio, sale verso l’alto.

È un movimento importante del pensiero russo. Lo ritroviamo, ad esempio, in Dostoevskij, ne “I fratelli Karamazov” in ciò che dice lo staretz Zosima ad Aloscia: Dio ha sparso nel mondo semi di un mondo invisibile e sta all’uomo saper vedere questi semi, riunirli, recuperarli, restituirli al cielo, innalzando sé stesso.

  • In Solov’ëv appaiono termini che appaiono presi dall’antico gnosticismo cristiano: semi, riunificazione del doppio, sizigia. Può spiegarli? Quale senso e rilievo hanno nel pensiero russo degli autori che lei cita?

Il testo di Solov’ëv più significativo, nel verso della domanda posta, mi sembra quello dal titolo tradotto con “Il dramma della vita di Platone” del 1898. In quel testo l’autore si occupa dell’amore platonico e affronta proprio il tema della completezza o interezza dell’umano, cel’nost. La luce divina increata è ovviamente priva di divisioni. Perciò l’umano che voglia innalzarsi al divino deve tendere al superamento di ogni divisione, a partire dal superamento della divisione più evidente, quella inscritta nella carne, ossia il superamento della divisione dei sessi maschile e femminile. Sizigia significa appunto riunificazione e superamento dei diversi.

Maschile e femminile, secondo Solov’ëv, sono diversi in una maniera accidentale, che non intacca l’unità profonda dell’umano. Così si può dire, secondo questo stesso autore russo della fine dell’800, di altre classiche divisioni: in corpo e anima oppure in materia e spirito. L’umano tende alla sua fondamentale unitarietà. Questa è la tesi di Solov’ëv: in questo senso non può essere affatto compreso come un dualista gnostico.

Tendere all’unitarietà vuol dire cercare di riunire e completare ciò che è diviso e incompleto. E ciò – in Solov’ëv – può avvenire solo attraverso l’amore. Un amore non platonico, appunto, ossia astratto, frutto di immaginazione e fantasia, bensì un amore molto concreto, corporeo-spirituale. L’amore corporale ha un profondo valore e un profondo significato spirituale, sia tra uomo e donna che tra amici. Echi di questo discorso sono ben presenti nella lettera sull’amicizia ne “La colonna e il fondamento della verità” di Florenskij.

L’idea della riunificazione del doppio nella sizigia sottolinea dunque il sentimento di relazione attraverso il quale la natura si completa nell’amore di due esseri umani e quindi in una comunione più ampia. In tale pensiero, la comunione dell’umanità è il risultato della tensione all’unità originaria, in Dio.

Individuo e umanità
  • Possiamo ravvisare una tensione verso un raggiungimento finale – non solo dell’individuo ma anche della storia umana – in questo genere di pensiero russo?

È indubbio che il concetto di pneumatosfera – rispetto a noosfera e biosfera – abbia un ruolo attrattore rispetto alla storia e al suo corso: la pneumatosfera rappresenta un traguardo, per quanto mai pienamente raggiunto.

È il fine verso il quale la storia umana, in solido con l’ambiente naturale, tende. La missione della Chiesa è facilitare la trasformazione che ne prefigura l’esito finale.

  • Non può risultare pericoloso pensare in questo modo?

Per rispondere a questa domanda, devo introdurre un altro concetto molto importante nel pensiero di Florenskij: il concetto di spazio intermedio.

Sia in Solov’ëv che in Florenskij, esistono nella realtà, come accennato, due mondi comunicanti: quello visibile e quello invisibile, oppure quello terreno e quello celeste. Va approfondita la modalità di relazione armonica tra questi due mondi, distinti ma mai contrapposti.

Se si partisse dal presupposto che non sussistano relazioni possibili tra due mondi così diversi – per cui il mondo invisibile sia da ritenere incommensurabile rispetto al mondo visibile – si dovrebbe concludere che la fede e la ragione sono totalmente incomunicanti. E questa, in effetti, è la conclusione a cui giungono alcuni mistici e teologi ortodossi. Non così in Solov’ëv e Florenskij, per i quali fede e ragione – sotto il postulato dell’incompletezza umana da completare – sono donate per relazionarsi, per comunicare appunto, per interagire.

Florenskij approfondisce le modalità della relazione col concetto di spazio intermedio, inteso quale spazio che colma lo iato tra il mondo visibile e il mondo invisibile, quindi tra la ragione e la fede: questo è lo spazio della cultura che, in Florenskij, deriva da culto, ed ha, dunque, a che fare, in maniera stretta, con la preghiera e con la liturgia.

Se la cultura e il culto fossero ininfluenti, la distanza tra i due mondi rimarrebbe del tutto incolmabile. Mentre cultura e culto, in Florenskij, non sono affatto ininfluenti, come lui mostra nelle sue opere.

Lo spazio intermedio è il luogo pertinente del movimento a cui ho accennato: luogo in cui Dio ha sparso e sparge dall’alto del mondo celeste – figurativamente – i suoi semi di divinità sul mondo terrestre, luogo di raccolta di questi semi da parte dell’umanità che in tal modo – figurativamente – ascende, avvicinandosi a Dio, divinizzandosi.

Si badi, però: in Florenskij lo scarto tra i due mondi non viene mai pienamente colmato dall’umano: pretesa – questa – che davvero potrebbe risultare molto pericolosa.

La religione
  • La pneumatosfera per Florenskij, dunque, cos’è? Si può dire?

Per Florenskij, oltre alla cultura umana – già in grado di trasformare l’ambiente – esiste la religione col suo culto e la sua teologia. La religione è in grado di penetrare dei propri valori spirituali l’ambiente umano e naturale insieme.

Nello spazio intermedio la religione ha la stessa rilevanza della scienza, piuttosto che dell’arte o della letteratura, secondo quel principio di completezza di cui ho detto sin dall’inizio dell’intervista. Questo spiega perché la fede – solidalmente alla cultura umana – è in grado di trasformare progressivamente il tutto in pneumatosfera.

Di questa si può dire che sia un mondo penetrato e caratterizzato sempre più dai nobili valori umani spirituali.

  • Senza riuscire pienamente?

Florenskij spiega come lo spazio intermedio sia uno spazio inesauribile. Lo scarto tra i due mondi non potrà mai essere pienamente colmato. Quel che conta è la dinamica, il movimento che continuamente avviene. Neppure quindi la pneumatosfera può essere pensata come uno stato di perfezione raggiunto dall’umano in maniera definitiva e con le sue proprie forze e conoscenze. Questa sarebbe chiaramente un’eresia.

  • Si può rintracciare qualche collegamento tra il pensiero che lei ci ha presentato e la drammatica attualità? Non le pare che la Chiesa ortodossa russa si senta investita di una pericolosa missione “salvifica”? 

Non è facile e neppure opportuno semplificare la complessità. Ma mi par vero che un certo finalismo salvifico sia senz’altro presente nella missione della Chiesa ortodossa russa, così come da questa intesa. Recuperare appieno la sua storia ci aiuta a spiegare alcuni tratti della contemporaneità. Dobbiamo ricordare come è nata la Chiesa russa. Esiste un evento fondativo, storico, ormai entrato nella sfera del mito: quello della “terza Roma”.

Dopo la caduta di Bisanzio sotto il dominio turco musulmano nel 1453, il patriarca Geremia, nel 1589, concesse l’autocefalia alla Chiesa russa e le conferì appunto una missione, con precise parole: “Poiché l’antica Roma è caduta in preda all’eresia di Apollinare e la seconda Roma [Costantinopoli] si trova sotto il dominio dei turchi senza Dio, oggi – o pio Zar – spetta al tuo grande regno russo [la terza Roma: Mosca] il compito di superare per devozione tutti i regni precedenti. Tutti i regni devoti sono riuniti nel tuo regno e solo tu ora hai il diritto di essere chiamato imperatore cristiano in tutto l’universo”.

Il codice che contiene questa dichiarazione è inserito nel libro canonico della Chiesa russa ortodossa ed è divenuto parte integrante della confessione dei fedeli russi. Con ciò la Russia sente di potersi fregiare del titolo di santa madre Russia, investita del compito di preservare la santità e quindi la moralità nel mondo.

Penso che non possiamo interpretare le affermazioni dell’attuale patriarca della Chiesa russa ortodossa Kirill omettendo questo ricordo. Quando parla quindi della guerra in Ucraina, lascia chiaramente intendere che la Russia è il solo e l’unico baluardo di santità rimasto nel mondo contro le degenerazioni morali dell’occidente. Kirill fa riferimento al mandato originario della Chiesa ortodossa russa. Non è un riferimento suo personale. Dobbiamo considerare che tutta la storia e la cultura russa sono caratterizzate da quell’evento fondativo.

Notiamo poi che il patriarca Geremia nel 1589 si è rivolto al “pio Zar” ovvero al “pio Cesare”. Ora, il presidente della federazione russa sostiene che l’Ucraina non esiste come nazione sulla carta geografica: lo dice sia perché la geografia del territorio – senza confini naturali – lo porta a dire questo, secondo il pensiero spaziale a cui ho accennato, sia perché si sente in qualche modo investito – da “imperatore cristiano” – della missione conferita alla santa Russia. Chiaramente Putin usa il grande mito in funzione del suo scopo politico.

Scisma ortodosso
  • La rottura della comunione ortodossa all’interno dell’Ucraina non ha intaccato il grande mito?

L’autocefalia che il patriarca di Costantinopoli Bartolomeo ha concesso dal 2018 alla Chiesa ucraina ha diviso a metà la Chiesa ortodossa in Ucraina ed ha effettivamente incrinato il mito della terza Roma. La sottrazione dell’egemonia integrale sulla Chiesa ortodossa in Ucraina è risultata intollerabile al patriarcato di Mosca, per le ragioni storiche e ideali a cui ho accennato.

L’evento ha interrotto gravemente il senso di continuità della storia dell’ortodossia russa. Kirill non riconosce più il primato di Costantinopoli: lo stesso dal quale è stato investito nella sua missione.

  • Che cosa ha a che fare tutto questo col pensiero degli autori che ci ha presentato?

Ho raffrontato due omelie di marzo, a pochi giorni dall’invasione dell’Ucraina, rispettivamente del patriarca di Mosca Kirill e del patriarca di Kiev Epifanio. Queste muovono dalle stesse idee teologiche di fondo. Con alcune differenze.

Kirill insiste sul contrasto tra la luce e le ombre, tra il bene e il male; insiste quindi sul compito della Chiesa – e dello stato russo – di impegnarsi per la vittoria del bene sul male, riproponendo la missione salvifica russa e contemplando la compresenza dei due principi opposti: bene e male.

Epifanio insiste altrimenti sul fatto che Dio è luce e solo la luce esiste. L’ombra è assenza di luce. Il male è mancanza di bene. Solo il bene perciò regge. La sua conclusione è che solo l’Ucraina è nella luce ed è destinata a vincere.

Mentre in Kirill – quindi – bene e male sussistono in tensione e il compito della Chiesa è assicurare che il bene prevalga, in Epifanio c’è l’idea che il bene vince e vincerà sicuramente. Le conseguenze operative – persino militari – delle due visioni sono sotto gli occhi di tutti.

Doloroso è costatare l’uso sostanzialmente politico e bellico della religione: cosa molto diversa dalla concezione della religione da parte degli autori russi di cui ho parlato.

Mi sta a cuore allora concludere ancora con Florenskij e col suo concetto di confine. Lo spazio intermedio tra i due mondi – invisibile e visibile, cielo e terra, ma anche luce e tenebre, bene e male – attenua senza abolire il confine tra gli stessi.

Ma tale confine non appare più come un baluardo o una barriera. Il confine è sempre un confine poroso o permeabile. Il confine è pensato come una membrana osmotica attraverso la quale avviene un continuo scambio, una continua relazione tra i diversi mondi, quindi tra spazi, culture, religioni, pensieri di popoli diversi.

In questa visione – che io ritengo profondamente cristiana – il peccato è la negazione delle proprietà del confine, quando questo diventa un muro impenetrabile tra l’umano e il divino, tra l’umano e l’umano. Il peccato è, come sempre, la pretesa di autosufficienza dell’uomo rispetto a Dio e quindi rispetto ai fratelli e alle sorelle in Cristo.

Io dico perciò, ovviamente compiendo un azzardo, che il mite padre Pavel Florenskij – condannato a morte e fucilato dal regime sovietico l’8 dicembre 1937 – inorridirebbe allo spettacolo di due Chiese separate da un muro di incomunicabilità, peraltro nell’ambito della stessa ortodossia: non esiterebbe a considerare il fatto quale espressione grave del peccato.

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