Il grido di Giobbe, voce di ogni uomo

All’uomo nelle condizioni estreme vien meno la parola, il linguaggio cede. L’esperienza che si vive si colloca, infatti, al di sotto e al di sopra del linguaggio: le parole sono di troppo e insieme troppo poche. Di troppo perché tutte inadeguate ad esprimere l’intensità di quel che si sente e perciò ridondanti o vane; troppo poche perché se mai si tenti di comunicare il proprio sentimento non bastano mai, per quanto eccedenti si rivelano sempre insufficienti. La felicità – lo si sa – trova la sua espressione più propria e più alta nel silenzio estatico – il venir meno di Saffo – e, perfino, nel pianto. E tuttavia, anche a non volerlo non è contenibile, deborda nella gioia, in profluvio di parole che nulla denotano se non il sentimento della propria illimitata espansione.

È il «non so più cosa son, cosa faccio» del Cherubino delle Nozze. Questa è la condizione umana, ma se vi è un luogo ove silenzio, urlo e abbandono trovano rappresentazione – e tra le più alte – è il libro di Giobbe […]. Esattamente è il silenzio di Dio che sperimenta Giobbe: è quello di chi è muto non perché fisiologicamente impedito, ma perché ha lingua legata, anzi che se la è legata da solo. Perché? È un gioco mimetico con cui Dio spiazza costantemente l’uomo: spesso si trova dove non lo si sente né si vede e non c’è affatto dove si ritiene sia o si crede d’averlo raggiunto. In questa mobilità Dio e l’uomo s’inseguono come gli amanti del Cantico, ma questo è segno dell’inesauribilità del divino. Lo si attinge per quel tanto che si dona e sfugge per quel tanto che lo si pretende. Perché non mancare l’incontro bisogna, allora, avere orecchie attente per udire, occhi buoni per vedere.

D’altra parte, la Bibbia mette sull’avviso: «Hanno occhi per vedere e non vedono, orecchi per udire e non odono» (Ez 12, 2). Ma tutto questo può valere per chi crede. Ma se non esiste alcun Dio cosa ne sarà del grido dell’uomo? Solo strazio senza risposta, voce che si disperde nel silenzio del tempo senza fine? Oppure è possibile che il grido dell’uomo possa trovare accoglienza e essere trasformato in parola, lo strazio in confidenza. Nella storia dell’umanità questo è già avvenuto ed perciò sempre possibile. Ed è avvenuto non in forza di un rapporto verticale e privilegiato io/TU che lega gli uomini a Dio, ma nella relazione originaria noi/altri che lega gli uomini tra di loro. Ma chi è garante di questo patto? Gli uomini costantemente lo infrangono, anche se avrebbero tutto l’interesse a preservarlo. Ma qui il grido è dolore inflitto, violenza dell’uomo sull’uomo, strage.

Eppure se la Bibbia e il cristianesimo ci hanno lasciato una cosa in eredità è accogliere il lamento, l’essere per altri. Ciò vuol dire mettersi reciprocamente in ascolto, penetrare i silenzi, decifrarli nella loro enigmaticità: sono di paura, di dubbio, d’incertezza? Di chi non ha parole perché si sente confuso o di chi non ha niente da dire perché il modo non gli dice più niente? Ma nel silenzio si possono percepire le minime vibrazioni del mondo, il suono delle cose, le voci e le parole degli uomini, come esse risuonano in noi. Necessario, per distinguerle, comprenderle, rispondervi e, se il caso, corrispondervi. Ogni autentico vero colloquio nasce, infatti, dal silenzio: esige una reciproca attenzione mai possibile nella chiacchiera. Qui, ci si dà sulla parola, le parole s’inseguono, si sovrappongono, il meglio che può capitare è l’equivoco. Per il resto, sola confusione. Ma vi sono anche altri e molti silenzi.

Quelli assorti da non violare, ma con cui si può divenire intimi con cenni di corrispondenza: quando si dice che parlano gli occhi. C’è infine il silenzio dell’anima, la meditazione: si può dire che qui il silenzio è l’ascolto al suo culmine, è il bel silenzio di cui scrive Neher «distensivo, stimolante; più eloquente della parola, la sdoppia, la sottolinea, l’intensifica; né è come il contrappunto e, negli interstizi del linguaggio, nelle pause, nei momenti di sospensione veicola un sovrappiù di vita». In questo punto, il silenzio libera davvero un’energia insospettata che porta l’uomo verso il punto più alto di lui, ma non è affatto detto – come scrive Neher – che si tratti dell’incontro con Dio. O se sì, con quale Dio? Di sicuro, però, il silenzio nel suo punto più alto ci disloca oltre il tacere e del parlare: non è più un far silenzio, ma piuttosto è un entrare nel silenzio, un abitarlo. Più esattamente è un sentirsi dentro dimensioni che ci precedono e ci oltrepassano: sono i «sovrumani silenzi» di Leopardi, ove ci percepiamo come brevi respiri dell’infinito, frammenti, null’altro che un fremito. È tutto vero: infatti, «come il vento / odo stormir tra queste piante, / io quello Infinito silenzio a questa voce / Vo comprando».

Entrare nel silenzio è deporre la propria soggettività nella totalità. Per lì ritrovarsi, comprendendoci come un puro caso, semplice transito nell’eterno divenire del mondo. «Ti sia presente – scrive Marco Aurelio –, ininterrotta la visione della durata perenne del tempo universale, la visione dell’universale sostanza. E pensa che tutte queste cose particolari sono, rispetto alla sostanza un grano di miglio; rispetto al tempo, un volgersi fugace di trapano».  Ma vedersi nel tutto significa dissolversi in esso o ci permette di trovare una giusta posizione? È vero siamo aleatori ed improbabili, ma per questo preziosi: unici. Ora vedersi nel tutto ci libera dal peso di noi stessi e che la nostra presunzione di autosufficienza ci spinge da ignorare. Ma che spesso non siamo in grado di sostenere. Non solo: vedersi nel tutto ci rende cosapevoli a comprendere che il nostro dolore non è che un segmento, un’emergenza del dolore del mondo, che solo se condiviso può essere sostenuto. Il grido ci ripiega, è un raggomitolarsi su di sé, è chiusura senza parola, sfogo senza relazione.

Certamente viene assorbito dal silenzio delle cose e nel silenzio si disperde se non c’è qualcuno che lo ascolta, lo raccoglie, volgendolo in confidenza. Fede no, ma certo fiducia. Marco Aurelio consiglia. «Abituati a prestare attenzione diligente per qualche cosa che altri ti dica e a trasportati il più possibile nell’anima del tuo interlocutore» (VI, 53). E perché? Perché «una cosa che non arreca utilità allo sciame non ne arreca neppure all’ape» (VI, 54). Solo nella scoperta di ciò che è comune, e nel comune riconoscimento, è possibile riscattare in qualche modo la nostra finitezza. Il mistico si rende docile a Dio fino all’annichilimento di sé; a noi basta sentirci reciprocamente obbligati, basta l’obbedienza, ma presa nel senso etimologico del termine: sottostare all’ascolto che poi vuol dire prendere sul serio le parole degli altri, assumerle come legge. Non vuol dire affatto essere d’accordo, ma significa certamente potere esseri concordi, vale e dire avere a cuore ognuno i destini dell’altro. Di qui la possibilità di un infinito intrattenimento e la concreta effettività dell’aiuto.
 
Ogni uomo come scrive Spinoza può farsi Dio per un altro uomo: nulla infatti, «è più utile all’uomo dell’altro uomo: nulla dico più eccellente per conservare il proprio essere gli uomini possono desiderare se non che tutti si accordino in tutto in modo che le Menti e i Corpi di tutti formino quasi una sola Mente ed un solo Corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti cerchino insieme per sé l’utile comune per tutti» (Etica, p. IV, p. XIX, sc.). Così scrive Spinoza, e allora, forse non è un caso se lui – il più ateo tra i filosofi – parli così tanto di Dio.

Salvatore Natoli

avvenire.it