Il futuro è interculturale

«Anche Gesù è stato un migrante», ha detto di recente il Papa. Motivo per cui nella Chiesa non ci può essere spazio per atteggiamenti di rifiuto e di disprezzo nei confronti degli extracomunitari. Come emerge bene dal Congresso vaticano sull’immigrazione.

Nell’Europa che ha paura dei minareti e respinge in mare le zattere dei disperati, e ancora di più in un’Italia dove un vescovo come quello di Milano che fa il suo lavoro viene considerato "straniero" in casa, suona poco rituale l’appello che il 17 gennaio la Chiesa lancia in occasione della Giornata mondiale dei migranti. I minori, il loro carico di vulnerabilità e il rischio di vite sospese, sono al centro del messaggio di Benedetto XVI per il 2010: «Gesù stesso da bambino ha vissuto l’esperienza del migrante», dice il Papa. E ricorda che «mentre cresce nell’opinione pubblica la consapevolezza della necessità di un’azione puntuale e incisiva a protezione dei minori, di fatto, tanti sono lasciati in abbandono e, in vari modi, si ritrovano a rischio di sfruttamento». Benedetto XVI ha in mente in particolare i «separated children», cioè i bambini che, secondo l’Unhcr, rappresentano la metà delle persone rifugiate nel mondo.

L’appello del Pontefice inquadra da un’ottica specifica il fenomeno delle migrazioni. E trova un richiamo nel documento, che verrà pubblicato prossimamente dal Pontificio consiglio dei migranti, dove sono raccolte le conclusioni del Congresso mondiale tenuto dal 9 al 12 novembre a Roma. Investire nella formazione al dialogo interculturale, ecumenico e interreligioso; prestare attenzione alle famiglie dei migranti, aiutando i ricongiungimenti familiari, visto che ormai a emigrare sono sempre più le donne, mamme di famiglia, costrette a separarsi da mariti e figli; considerare il migrante non solo persona da assistere, ma soggetto di evangelizzazione; preparare, infine, persone competenti per lo specifico servizio nei confronti dei giovani migranti, rifugiati e studenti internazionali. Tutti questi sono i temi principali che percorrono il testo.

«L’attenzione ai giovani migranti è fondamentale anche come impegno pastorale», dichiara padre Gabriele Parolin, superiore dei missionari Scalabriniani per l’Europa e l’Africa. Parlando dei «giovani di seconda e terza generazione in Europa», il religioso spiega che questi ragazzi avvertono la «difficoltà della duplice appartenenza», fra la cultura della famiglia di origine straniera e quella della società locale. Il missionario suggerisce di colmare una grave lacuna e «formare nuove figure di operatori di pastorale giovanile, capaci di confrontarsi con la diversità culturale dei giovani presenti nel territorio, elaborando al contempo nuovi sussidi catechetici e pastorali che riflettano la multietnicità dei giovani nella Chiesa». Si tratta di fare un altro passo avanti, visto che la pastorale già sperimenta modelli diversi. E così dove maggiormente sono attivi i flussi migratori, alle tradizionali strutture – parrocchie personali e missioni con cura d’anime – si sono affiancate, specie nelle metropoli, parrocchie "plurietniche" o "interculturali".

Le diverse esperienze pastorali raccontate durante il Congresso hanno illustrato l’altra faccia della cronaca e delle vicende politiche internazionali. Così, per esempio, monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, vicario apostolico di Tripoli, ha parlato della sua Chiesa fatta «di migranti, di clandestini, di rigettati»: persone provenienti per lo più dall’Africa sub-sahariana, moltissimi dall’Eritrea, che «non possono tornare a casa e vogliono andare a tutti i costi in Europa. E finché in Africa ci sarà la guerra, la miseria, le carestie, sarà impossibile fermarli». Il vescovo non ha dubbi: «Capisco l’esigenza di controllare gli ingressi ma non si possono bloccare i flussi se non c’è la possibilità di dare una speranza a questa gente. Preferiscono morire in mare piuttosto che tornare in patria. Non c’è niente che può dissuaderli».

John Wester, vescovo di Salt Lake City, nello Stato americano dello Utah, e presidente del Comitato dei vescovi Usa per le migrazioni, ha parlato del grande sforzo che le Chiese stanno facendo per dare un volto umano alla legge sull’immigrazione e delle speranze che il presidente Obama «dopo la Sanità pensi anche a una riforma della legge sull’immigrazione». Negli Usa, dice monsignor Wester, sono presenti «circa 7 milioni di migranti senza documenti che vivono nella clandestinità, diventando così delle ombre: hanno paura di incontrare per strada i poliziotti, rischiano di entrare nel giro della criminalità o ne diventano vittime essi stessi».

Sul piano pastorale monsignor Josef Voss, ausiliare di Münster e presidente della Commissione episcopale per i migranti di Germania, parla invece del progetto di «catechesi interculturale» che i vescovi tedeschi hanno allo studio, della stretta collaborazione ecumenica con la Chiesa protestante e delle tre colonne su cui si base l’integrazione: lingua, lavoro, vita culturale e sociale. «Insistiamo che anche per i musulmani ci sia istruzione religiosa, islamica, a scuola con le condizioni che valgono per tutti», spiega il presule. E ricorda che nel 2008 un documento dell’episcopato tedesco, in merito alla costruzione delle moschee, riconosceva ai musulmani lo stesso diritto alla libertà religiosa detenuto dagli altri.

Vittoria Prisciandaro – Jesua n.1/2010