Il bivio dell’infanticidio: chi ferma i nuovi barbari?

Il 28 febbraio segnalavo su Avvenire il tentativo, operato da due studiosi italiani residenti in Australia, di dare legittimazione culturale all’infanticidio. A due settimane di distanza possiamo constatare con compiacimento che l’articolo, significativamente titolato «Invasioni barbariche», ha suscitato una vasta e positiva ondata di sdegno, in Italia e all’estero. Alla fine del mio editoriale invitavo anche chi non ritiene la vita un dono intangibile a intervenire, per dire basta ai nuovi barbari che, sistematicamente, attraverso una bioetica autoreferenziale, stanno provocando il crepuscolo della civiltà occidentale.
Sono stati in molti, per fortuna, ad accogliere l’invito e a prendere le distanze dalle posizioni espresse sul Journal of Medical Ethics. Nessuno, viceversa, ha ritenuto di intervenire a sostegno dei due bioeticisti d’assalto. Anzi, essi stessi sono stati costretti a un’autodifesa. Con giustificazioni da apprendisti stregoni, pronti a lanciare il sasso e tirare indietro la mano, hanno sostenuto che si trattava solo di un esercizio accademico, privo di ricadute sulla vita reale; come se la filosofia (e l’etica in particolare) fossero solo un innocuo esperimento condotto in un asettico laboratorio del pensiero.

Tra coloro che sono positivamente intervenuti nel dibattito nessuno, purtroppo, è voluto arrivare al nocciolo del problema, forse per timore di conseguenze politicamente “scorrette”. Infatti, per proporre le loro spaventose teorie, Alberto Giubilini e Francesca Minerva partono dalla tesi che «sia il feto che il neonato sono certamente esseri umani». Una premessa indiscutibilmente vera, così come è vero il loro secondo presupposto: «Il neonato e il feto sono moralmente equivalenti». Purtroppo, il ragionamento con cui tali premesse sono sviluppate è, invece, intrinsecamente errato e fonte di errori a cascata.

Secondo questa logica perversa, la dignità di persona umana non sarebbe ontologicamente propria di ogni essere umano, ma soltanto di quelli a cui la società riterrà giusto riconoscerla. In altre parole, lo status di persona sarebbe solo un attributo sociale. Sebbene si riconosca che il neonato, al pari del feto, sia almeno potenzialmente una persona, esso, tuttavia, mancherebbe «delle proprietà che giustificano l’attribuzione a un individuo del diritto alla vita». Non sarebbero infatti da considerare persone tutti gli individui «che non sono in grado di attribuire un valore alla loro propria esistenza». A differenza – i due studiosi ci tengono a sottolinearlo – di molti animali ai quali, come fu proposto in Spagna per le scimmie, andrebbero riconosciuti i diritti delle persone.

Quella della civiltà occidentale di derivazione giudaico-cristiana è stata una storia di progressivo allargamento del diritto di cittadinanza e dei diritti umani che ne derivano: alle donne, ai bambini, agli schiavi, ai prigionieri, ai nemici, ai condannati a morte. Una cittadinanza umana diventata finalmente universale con la Dichiarazione d’indipendenza americana, nella quale vengono formalmente riconosciute alcune «verità evidenti di per sé»: che tutti gli uomini nascono uguali e che sono stati dotati di alcuni diritti inalienabili e sacri, il primo dei quali è il diritto alla vita. È una storia che ha consentito lo sviluppo del pensiero democratico, con i princìpi della rivoluzione americana ripresi in Francia – non a caso – dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Contraddetti dai regimi totalitari, tali principi sono stati riaffermati solennemente alla fine della II Guerra mondiale nella Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu (1948).
Poi è iniziata la lenta erosione dall’interno stesso dei sistemi democratici, partendo dalla legislazione sull’aborto. Il resto ne è solo la conseguenza: se il primo diritto dell’uomo – il diritto alla vita – può essere conculcato per legge, se esso non è più riconosciuto come una «verità evidente di per sé», allora tutto il resto diventa relativo. Fino all’infanticidio. Per questo si può parlare di invasioni barbariche. Tutto è partito dall’aborto, e dall’aborto occorre ripartire, laicamente, per ritrovare il comune denominatore in grado di garantire il rispetto dei più deboli.
Talora, nel caso dall’aborto come per altri reati, la legge può anche scegliere la via della depenalizzazione, ma non si può rinunciare a chiamare bene il bene e male il male. Non sanzionare, anche solo moralmente, la violenza e la sopraffazione non può che provocare profonde lacerazioni nel tessuto sociale minando alle fondamenta un atteggiamento solidale verso le condizioni di fragilità di cui ogni società oggi abbonda. Davvero, come ha detto a più riprese il cardinale Bagnasco, «l’etica della vita è il fondamento dell’etica sociale».

 

Gian Luigi Gigli – avvenire.it