IDEE Per la ripresa, la sapienza delle mani

Nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, del 1824, Giacomo Leopardi stigmatizzava il «poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è negli altri paesi», lamentando anche l’assenza di quella «società stretta» che invece segnava il vivere insieme in altri Paesi europei, a suo dire più civilizzati. Dopo Leopardi, sono stati numerosi gli autori che sono tornati sull’eccezione italiana, in genere più per sottolinearne gli aspetti problematici che quelli esemplari. A scuola, tutti abbiamo studiato la celebre frase di Massimo D’Azeglio che, pensando all’unità nazionale, affermava (rivelando il suo scetticismo sul modello sociale del nostro Paese): «Abbiamo fatto l’Italia, ora facciamo gli italiani». In realtà, l’Italia si caratterizza per alcune peculiarità sulle quali sarebbe utile riflettere più attentamente. Per guadagnare, finalmente, la piena consapevolezza dell’esistenza di un modello italiano, con i suoi pregi (da valorizzare) e suoi difetti (da riconoscere prima e combattere poi).

Il nostro è, prima di tutto, un Paese a nazionalismo debole: il che è senz’altro vero dal punto di una concezione statalista. Ma basterebbe cambiare un poco la prospettiva per accorgersi che l’identità italiana è in realtà molto forte anche se radicata, e direi filtrata, dalla appartenenza locale. Anche la mancanza di una “società stretta”, con il rischio del personalismo, del particolarismo, del trionfo dell’eccezione sulla regole, viene di solito citata come aspetto negativo. In realtà, l’ideale della neutralità affettiva e della sovranità delle procedure è solo uno dei modelli possibili del vivere associato, e forse non necessariamente il più desiderabile. E in ogni caso, rispetto a esso, la cultura materna e indulgente del nostro Paese può rappresentare un correttivo, oltre che beneficiare del correttivo che le viene offerto da tradizioni più universaliste. La prevalenza del codice materno su quello paterno della legge, se da un lato può generare un’eccessiva personalizzazione dei rapporti e una concretezza che rende difficile la disciplina, dall’altro aiuta a rafforzare lo sguardo amorevole e creativo nei confronti della realtà. È da qui che poi derivano la concretezza, il desiderio di contatto, il bisogno di contiguità che sono espressi in modo mirabile non solo nella pittura rinascimentale italiana – che mostra l’«emergere trionfale dei corpi, la forza della carezza e del contatto, il piacere sensuale della prossimità» – ma anche nell’artigianato che, non a caso, costituisce un filo rosso di lunghissimo periodo della tradizione economica italiana. Infine, ciò che rende filosofi (in senso spregiativo per Leopardi) gli italiani, ovvero l’attitudine alla rappresentazione e allo spettacolo, il senso del comico, la capacita di mettere in evidenza, anche esagerandolo, il lato dolce della vita, produce «una varietà di suoni e figure che allargano il respiro e aprono al domani» e una «celebrazione della forza della vita e dell’immensa varietà di ragioni per cui essa è degna di essere vissuta». La vocazione a rappresentare semina un dubbio sull’autoevidenza del dato di fatto, aprendo alla consapevolezza del limite, ma anche alla possibilità di trascenderlo. L’alternativa all’universale astratto, delle procedure che ha paura di legarsi a dei contenuti per timore di perdere in autonomia, è, nella tradizione del nastro Paese, l’universale concreto, il singolare-universale: che si radica, appunto, nell’italianità (basta pensare all’arte e, di nuovo all’artigianato) e che trae il suo fondamento dall’universalismo che attraversa la singolarità senza cancellarla (al contrario, valorizzandola). Nel modello italiano, la generalizzazione si produce, infatti, bottom up, dal basso e dall’esperienza, a partire dal rapporto concreto con lapluralità e l’alterità. La “sapienza dei luoghi” (il genius loci) e “la sapienza delle mani” vanno in questa stessa direzione.

L’Italia è ricchissima di esempi di universalità incarnata. Lo sanno i turisti stranieri, che trovano qui qualcosa di assolutamente unico, che non incontrano altrove. Nell’arte, nell’urbanistica, nell’artigianato. E più in generale, anche nella qualità di certe forme di vita, fino alla tradizioni culinarie, spesso sviluppate a partire da situazioni di penuria, ma capaci di realizzare qualcosa di valore. Da qui derivano anche le forme istituzionali tipiche del nostro Paese: la centralità del municipio, il ruolo della piccola impresa e della famiglia, l’attitudine creativa. Incredibile a dirsi, questo nucleo originario che costituisce il cuore della nostra tradizione fatica a essere compreso e condiviso dagli stessi italiani. Con un danno gravissimo nella misura in cui gli assetti istituzionali raramente sono stati capaci di adattarsi al Paese e al suo modo di essere.

E questa la ragione che spiega perché, di fronte alla crisi che sta scuotendo il Paese, non basterà il ricorso a qualche intervento tecnico per sciogliere i nodi che abbiamo davanti. È evidente, infatti, che il nostro Paese – come altri – ha accumulato un ritardo storico nella misura in cui non è stato in grado di attrezzarsi per mettersi al passo dei nuovi, più elevati, livelli standard tecnico-economici dettati dalla recente globalizzazione. Alla domanda: «Come è possibile colmare questo ritardo?», la risposta non è semplice. Ma è comunque chiaro che, solo recuperando la sua originaria identità e avviando una stagione di riforme istituzionali conformi ad essa, l’Italia potrà risolvere i tanti problemi che la assillano. Per riformare davvero il Paese, occorre prima e tutto conoscerlo e, in secondo luogo, volergli bene. Certo, l’Italia ha oggi, di nuovo, un ritardo. Ma il suo futuro non passa dalla negazione delle sue radici, ma dalla loro piena valorizzazione, che passa anche dal combattere le non piccole patologie di cui il nostro modello è portatore. Il mondo artigiano e pienamente parte di questa storia, di questa matrice. Difenderlo e promuoverlo non significa avere la testa voltata all’indietro, ma continuare a pensare che l’Italia abbia qualcosa di straordinario da offrire al mondo intero.

 

Mauro Magatti – avvenire.it