I media e la nostra responsabilità. Buone notizie dall’era digitale: nessuno è più soltanto spettatore

Se c’è una buona notizia dell’era digitale? Che oggi nessuno è più solo spettatore: con la rete la condivisione, la partecipazione, la produzione di materiali sono alla portata di tutti. Ma questa notizia è anche impegnativa. Tutti siamo chiamati in causa, nessuno può accontentarsi di stare a guardare, o fermarsi alla prima difficoltà e arrendersi: un atteggiamento che rischia di essere irresponsabile, perché il web è quello che ci mettiamo. La diffidenza oggi non aiuta. I rischi, che pure ci sono, aumentano tanto più quanto più ci si sottrae alla responsabilità di abitare il web e renderlo abitabile. Prendere la parola non è un optional. Non prenderla, quando si ha qualcosa da dire, è una grave omissione. La tendenza alla diffidenza, peraltro, non è nuova nemmeno nella Chiesa. È indicativo il fatto che la Inter mirifica, il primo documento licenziato dal Concilio di cui ricorre il 4 dicembre il cinquantesimo anniversario, fosse proprio sui media, definiti come «meravigliose invenzioni della tecnica… che più direttamente riguardano le facoltà spirituali dell’uomo e che hanno offerto nuove possibilità di comunicare» (n. 1). E nello stesso tempo che proprio quel documento, a causa del suo oggetto, fosse stato anche così osteggiato. L’ambivalenza è inevitabile, ma non ci deve paralizzare.

Nel 2014 cadono anche i dieci anni dalla pubblicazione di Comunicazione e Missione, il Direttorio sulle comunicazioni sociali, che riconosce come a un aumento di importanza dei media debba corrispondere un aumento di vigilanza e capacità critica, e istituisce a questo scopo la figura dell’animatore della comunicazione e della cultura. Questi due anniversari ci richiamano a un’assunzione di responsabilità: in un tempo di “ubiquità del web” e di “connessione perenne” non possiamo sottrarci a un impegno attivo in questo nostro mondo ormai “misto”, dove la dimensione materiale e quella digitale sono ormai inestricabilmente impastate. Il compito di alfabetizzarsi al nuovo ambiente non è facile. Ma, nello stesso tempo, non tutti devono diventare smart. Quella che è irrinunciabile, piuttosto, è la capacità di comprendere le logiche della rete, per poter comunicare con tutti e per poterle valorizzare a beneficio della nostra umanità.

Ma come fare, se si è immigrati digitali, totalmente analfabeti? L’analogia con il fenomeno della migrazione dei popoli può aiutare. Qualcuno tra gli stranieri se la cava da solo osservando gli altri, “buttandosi” con coraggio nel nuovo ambiente senza farsi scoraggiare dagli errori inevitabili, e un po’ alla volta impara a muoversi, con competenza sempre maggiore, acquistata “sul campo”. Per qualcuno, invece, è necessario un “mediatore culturale”, un facilitatore che conosca bene il contesto ma sappia anche entrare in sintonia con le difficoltà e le preoccupazioni dei nuovi arrivati, accompagnando un graduale ma necessario cammino di familiarizzazione. L’animatore della comunicazione e della cultura è precisamente questa figura-ponte, oggi più che mai fondamentale se si vuole evitare che il divario tra le generazioni diventi un baratro, e che tante persone di buona volontà non siano nelle condizioni di esprimere le loro capacità e disponibilità a beneficio di tutti, solo perché non riescono a capire e a parlare la lingua del nostro tempo.

Ma quali sono gli aspetti della rete che tutti possiamo impegnarci a valorizzare, e qual è il contributo irrinunciabile che la prospettiva della fede può offrire oggi, anche nel web? Intanto, la rete rimette al centro la dimensione dell’esperienza: si impara facendo, con altri. E si impara per essere capaci di fare sempre meglio. In questo processo si cresce insieme, senza una divisione rigida dei ruoli, senza una separazione artificiale tra imparare e insegnare: c’è sempre qualcuno che ne sa di più, da cui possiamo imparare, e qualcuno che ne sa di meno, a cui possiamo insegnare quel poco che sappiamo. La rete è un contesto di formazione permanente, con altri, nella comunicazione. Un contesto di interdipendenza (contro le ossessioni di autonomia della cultura iperindividualistica che abbiamo così a lungo respirato), di reciprocità non ossessionata dalla simmetria: riconosciamo la competenza, l’autorevolezza, senza che questo sia motivo di disagio o umiliazione. Ma, soprattutto, tutti possiamo, in qualche modo, partecipare se messi nelle condizioni di farlo. Dove partecipare non significa “prendere una fetta”, rivendicare un diritto, ma contribuire, esercitando una responsabilità. Partecipare contribuendo. E tutti, nessuno escluso, hanno qualcosa da dare.

Ma c’è di più. L’esperienza, oggi fondamentale, è tanto più viva e capace di generare autentica conoscenza quanto più è illuminata. Chi non crede non vede, scriveva Flannery o’Connor. La luce della fede, che Papa Francesco ci ha richiamato nella sua enciclica, è ciò che rende diverso e irrinunciabile il contributo dei cattolici sul web. Perché la fede apre nella rete, che come tutti gli ambienti rischia di diventare autoreferenziale, una finestra su un oltre, su un «di più che la rete non può dare», con le parole di Benedetto XVI. Il nostro mondo, e non solo quello digitale, può sembrare buio. Ma la fede apre a un al di là, come ci ricorda Dante: «Salimmo sù, el primo e io secondo, / tanto ch’i’ vidi de le cose belle / che porta ’l ciel, per un pertugio tondo».

 

Chiara Giaccardi – avvenire.it