Guerra. Non c’è altra via che il dialogo, che prima di tutto significa accettare la verità e il diritto di esistere dell’altro, anche del nemico

Mentre vediamo ormai prossima la scadenza di quattro mesi di guerra, è tristemente necessario soffermarci a considerarne le conseguenze. Non ci riferiamo tuttavia ai danni umani (in termini di vite spezzate, di famiglie divise, di comunità disperse o, peggio, annientate) o a quelli economici (direttamente causati in loco dalla distruzione di intere città, di infrastrutture industriali e civili e di vie di comunicazione, ma anche – a distanza – dagli stravolgimenti nell’ambito economico e commerciale di cui tutti sentiamo il contraccolpo: basti pensare alle difficoltà di approvvigionamento alimentare ed energetico) che l’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo sta originando: purtroppo in quest’ambito ogni stima non è soltanto presuntiva – poiché basata su calcoli largamente congetturali, data la mancanza di dati esaustivi, – ma anche inevitabilmente e drammaticamente provvisoria, poiché riferita a una situazione tuttora in atto e di cui non sembra intravedersi a breve termine una conclusione, quale che sia, che permetta di ragionare «a consuntivo».

Per cui, nonostante sia davvero triste doverlo riconoscere, non siamo in grado di avere una rappresentazione affidabile né del danno che stanno subendo gli abitanti dell’Ucraina, né di quello che sta toccando l’economia russa – intesa non solo come le grandi cifre macroeconomiche, ma anche relativa al reale impatto sulla vita dei cittadini della Federazione russa, – né di quanto sta interessando l’economia europea e, in particolare, italiana.

Vi è però un altro ambito – solo apparentemente «altro» rispetto a quanto abbiamo detto finora – nel quale possiamo e dobbiamo iniziare una valutazione necessaria e possibile, per quanto amara. Il riferimento è alle conseguenze della guerra a livello del sentire comune, da cui possa partire – per chiunque lo desideri – una valutazione personale dei danni che sta subendo a livello di percezione della realtà, di sé stessi e della circostanza nella quale si configura il destino di ciascuno.

Sotto questo aspetto, non possiamo non menzionare un refrain ricorrente, che è stato più volte espresso prima e dopo le recenti dichiarazioni di papa Francesco a proposito della situazione attuale. In particolare, del pontefice è stato stigmatizzato il fatto che non «faccia nomi e cognomi», e che non abbia pronunciato una recisa condanna non tanto della guerra e della violenza, ma di persone precise;
inoltre, alcune sue dichiarazioni (che naturalmente molti si sono affrettati a definire «improvvide») nelle quali, pur non avendo papa Francesco mai rinunciato ad affermare la differenza tra aggredito e aggressore e a evidenziare chiaramente il martirio del popolo ucraino, si suggeriva una lettura non unilaterale delle ragioni più remote del conflitto e si chiedeva una riflessione sugli atteggiamenti anche della parte occidentale nelle vicende degli ultimi trent’anni, hanno provocato articoli ed editoriali nei quali, più o meno velatamente, si afferma che sarebbe auspicabile un atteggiamento di maggior silenzio da parte del papa.

di Francesco Braschi in La Nuova Europa