Una pratica molto antica che arriva fino ad oggi. È l’Obolo di San Pietro, la colletta che si svolge in tutto il mondo cattolico, per lo più il 29 giugno o la domenica più vicina alla Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo (quest’anno il 26 giugno). La colletta, come viene spiegato sul sito ufficiale, rimanda alle origini del cristianesimo, quando vengono sostenuti materialmente “coloro che hanno la missione di annunciare il Vangelo, perché possano impegnarsi interamente nel loro ministero, prendendosi cura dei più bisognosi”. È quanto sottolinea anche monsignor Giovanni Angelo Becciu, sostituto per gli affari generali della Segreteria di Stato della Santa Sede. Lo abbiamo incontrato alla vigilia di questo appuntamento, conosciuto come Giornata per la carità del Papa.

Eccellenza, l’Obolo di San Pietro è una pratica molto antica che rimanda alle origini del cristianesimo. Quali sono i motivi che la rendono ancora attuale?
Direi gli stessi di un tempo, fondamentalmente due: offrire un sostegno materiale a chi vive per annunciare il Vangelo, quindi alle necessità dell’apostolato, comprese anche le attività della Santa Sede; e prendersi cura dei più bisognosi, che purtroppo non mancano mai, non solo vicino a noi, ma anche in tanti contesti di sofferenza, spesso dimenticati.

Obolo di San Pietro

Qual è il senso spirituale ed ecclesiale della Giornata per la carità del Papa?
Oltre alla carità, che parla già da sé, c’è, come lei ha detto, un importante significato ecclesiale: non si tratta solo di dare un aiuto a chi ne ha bisogno o una mano a chi fa del bene, ma di farlo come Chiesa. Partecipare alla carità del Papa è un gesto fortemente simbolico, perché manifesta la vicinanza delle comunità e dei fedeli al Papa, la partecipazione alla sua sollecitudine.

È un segno, semplice e antico, di unità nell’amore.

Per questo è e dev’essere, com’era anche nella Chiesa delle origini, un gesto spontaneo. Mi piace anche ricordare che l’obolo avviene attorno alla solennità di San Pietro: è, in fondo, il “regalo” delle Chiese al Successore di Pietro, che non lo tiene per sé, ma a sua volta lo distribuisce secondo i bisogni delle Chiese e dei poveri.

Una nota particolare viene data a questo appuntamento annuale dal Giubileo della misericordia che stiamo vivendo. In tale senso è efficace lo slogan scelto dalla Conferenza episcopale italiana per la Giornata del 26 giugno: “Apriamo i cuori alla misericordia”. Ma è possibile coniugare carità e misericordia? E in che modo?
Direi che sono già coniugate, sono strettamente apparentate: la misericordia indica un cuore aperto, che non rimane chiuso in se stesso, un cuore che sa abbassarsi, sa chinarsi verso le miserie, come fa Dio con noi. La carità nasce da qui, come un buon gesto viene da un buon cuore, come un sorriso dalla gioia.

Il Papa ci ricorda più volte che, per essere vera, la carità deve essere concreta. Vuol dire che non può fermarsi al pensiero o al sentimento, ma deve raggiungere pure le tasche! E vuol dire anche, soprattutto oggi, che le opere di carità devono essere sapientemente pensate e ben gestite, per arrivare veramente a chi ha bisogno, senza sprechi.

Sono molto frequenti i richiami del Papa a non volgere lo sguardo altrove rispetto alle situazione di povertà, esclusione e disagio. Molto spesso però non vengono colti appieno. Ricorrenti, infatti, sono le “accuse” di pauperismo, populismo, peronismo. Perché tutto questo?
Mi verrebbe da dire che la prima reazione, quando un invito è scomodo e fa pensare, è proprio quella di muovere qualche critica un po’ stizzita che poi alla fine, se ci pensiamo, sa spesso di astratto, di ideologico, di partitico, e soprattutto non aiuta. Credo che in questi casi la cosa più importante sia davvero andare oltre e non lasciarsi amareggiare: si sa che “trovare la pagliuzza nell’occhio del fratello” è uno degli sport più diffusi al mondo. Ebbene, la Chiesa è chiamata a non fare così, ma ad andare avanti nel bene con fiducia, guardando solo al Vangelo e non ad altro, nemmeno ai propri ritorni di immagine.

Alle parole e alle denunce, infatti, il Papa aggiunge l’esempio concreto: basta pensare alla visita a Lesbo e al gesto di accoglienza nei confronti dei rifugiati accompagnando a Roma con il suo stesso aereo tre famiglie siriane.
Sì, ma, conoscendolo un poco, direi che proprio non gli interessa farlo per “strategia mediatica”. Lo fa, e credo che la gente lo veda, con naturalezza, in modo direi connaturale, unendo spontaneamente quello che crede e quello che fa. Mi viene in mente un’espressione di Papa Benedetto: “Il programma del cristiano è un cuore che vede”. Non è un fuoco d’artificio pubblicitario, ma uno sguardo che vede i bisogni e un cuore che si dà da fare, senza bisogno dell’approvazione altrui, e senza volerla ricercare.

Nepal, Repubblica Centrafricana, Kenya, Uganda, Niger… Sono alcuni Paesi su cui si è intervenuti nel 2015 con le offerte giunte da tutto il mondo all’Obolo. Senza dimenticare i cristiani perseguitati nelle guerre e i poveri della città di Roma. Insomma non conosce confini la carità del Papa?
Non deve conoscerne! Un aspetto molto importante è essere presenti soprattutto presso le realtà che vengono dimenticate troppo in fretta.

Da molte parti del mondo, senza clamore mediatico, giungono al Papa accorate richieste e grida di aiuto. Bisogna prestarvi attenzione.

Si fa presto oggi a scordarsi di quello che succede nel mondo, presi dalla curiosità per le ultime novità di casa nostra.

La missione del Papa e della Chiesa, invece, è proprio quella di abbracciare tutti, in particolare i più dimenticati e lontani, che purtroppo non hanno risalto sulle prime pagine di tanti media.

Qual è il suo auspicio e il suo appello per la raccolta del 2016?
Vorrei far mio quel che scriveva san Paolo, quando chiedeva di contribuire a una colletta per la Chiesa: più che fare propaganda o inseguire il risultato, dava valore al gesto, dicendo che “Dio ama chi dona con gioia”. Ecco, il mio auspicio è che l’obolo di quest’anno sia un’occasione concreta per ritrovare la gioia pura e semplice di donare.

agensir