Giochi di potenza sull’incubo atomico

di Andrea Lavazza – avvenire

 Non si fanno intimidire. Alzano la voce a ogni presa di posizione internazionale. Rilanciano e minacciano, salvo poi dirsi disposti a una nuova tornata negoziale, da cui ben poco si otterrà, se non una dilazione temporale. Nord Corea e Iran, potenze nucleari reali o potenziali, erano gli ‘Stati canaglia’ di Bush e costituiscono oggi i principali obiettivi polemici di Obama. Con Pyongyang l’Amministrazione repubblicana aveva tentato la carta del dialogo e sembrava essere arrivata a un accordo sulle armi di distruzione di massa. Con Teheran l’Amministrazione democratica ha provato – per ora senza risultati – la mossa della mano tesa. E oggi si fanno di nuovi i conti davanti ai rischi creati da due regimi che seminano instabilità ai due estremi dell’Asia.
  Il pressing americano sulle altre potenze, perché si uniscano al fronte di contenimento, sembra motivato in un caso dal pericolo di colpi a sorpresa coreani e, nell’altro, dai crescenti segnali di insofferenza israeliana, che potrebbe portare lo Stato ebraico a un’azione preventiva dai contraccolpi imprevedibili. Non deve sorprendere il copione ripetitivo che va in scena in occasioni come l’appena concluso G8-G20. La preoccupazione di Washington non trova peraltro sponde convinte in Russia e Cina, ambigui sponsor dei due Paesi nel mirino.
  Come ormai è palese, il ‘cuneo’ iraniano in Medio Oriente non dispiace del tutto a Mosca e Pechino: finché rimane una bomba a orologeria senza timer innescato, serve a limitare e a controbilanciare l’area di influenza americana e dell’islam sunnita.
  Diverso sarebbe però lo scenario in cui Israele prendesse l’iniziativa militare ed è per questo che un possibile gioco delle parti tra Obama e Netanyahu, poliziotto ‘buono’ e poliziotto ‘cattivo’, potrebbe rappresentare la mossa per convincere tutti che è il caso di premere su Teheran. Diverso è il caso nordcoreano, in cui è difficile sperare in sommovimenti interni che portino a un cambio di regime, e dove, anzi, di fronte all’isolamento, i vertici ‘autistici’ di Pyongyang sarebbero indotti a un gesto estremo. Sembra questo il ragionamento di Pechino, che resiste agli inviti americani a condannare l’affondamento compiuto da Pyongyang di una nave da guerra dei cugini del Sud. Se anche la Cina voltasse le spalle al sempre più ingombrante alleato, lo scenario di un attacco disperato dal Nord non sarebbe così ipotetico. Ecco allora che il gigante asiatico – desideroso di essere ammesso da protagonista negli equilibri mondiali, come ha dimostrato con l’apertura sulla rivalutazione dello yuan – difende a suo modo lo status quo, tollerando qualche ‘intemperanza’ nordcoreana piuttosto che creare un nuovo ambito di crisi.
  Letta così, la situazione pare non concedere grandi spazi di manovra. Forse un nuovo leader, annunciato per i prossimi mesi a Pyongyang, sarà pronto nuovamente a negoziare, scambiando il programma nucleare bellico con sostegno allo sviluppo del suo disgraziato Paese, affamato proprio dalla dirigenza. O, grazie allo scudo cinese, continuerà a baloccarsi con il sogno di potenza mentre all’interno dei suoi confini blindati la gente muore di fame.
  Diverso è il contesto mediorientale, in cui Ahmadinejad tenta di tirare il più possibile la corda per aumentare il proprio peso regionale, sfruttando le divisioni dei Grandi. Il punto di rottura potrebbe essere vicino – il tempo che separa dall’effettiva realizzazione di ordigni nucleari –, oppure solo un po’ più distante. Certo, gli attori coinvolti e la delicatezza della partita fanno ritenere quella iraniana la questione più calda e intricata. Di cui faremmo bene a occuparci un po’ di più anche come Paese, alzando lo sguardo da alcune piccole questioni nazionali che occupano tutta la scena politica.