FESTA DELL’8 MARZO Rompere la barriera del silenzio per battere la violenza domestica

Quello che le donne – e sempre più spesso i bambini – non dicono è quanta violenza subiscono in silenzio tra le mura domestiche. Soprattutto per una concezione malata dell’amore che confonde sentimento e possesso, senza riconoscere il confine della libertà altrui. Un dramma che sempre più investe parrocchie, centri d’ascolto, associazioni perché è qui che la donna maltrattata, vinta vergogna e sensi di colpa, si rivolge per chiedere aiuto. Teme, rivolgendosi al pubblico, di perdere i figli. Le storie raccolte dal Gruppo Abele, attivo da anni nell’aiuto alle donne vittime di tratta, raccontano drammi nascosti che toccano anzitutto le straniere prostituite.

Come Nadia, giunta in Italia da un paese dell’Est con la promessa di un lavoro, ma obbligata a lavorare in strada schiava di una banda criminale. Conosce Vito, un connazionale che l’aiuta a uscire dal giro. All’inizio sembra facile, lavorano entrambi e decidono di avere un bambino. Nasce Cristina. La situazione economica però precipita. Vito è sempre più nervoso e diventa particolarmente possessivo. Teme che Nadia lo tradisca e nonostante lei lo rassicuri, le rinfaccia sempre più spesso che lei era una poco di buono. La tensione crescente sfocia in aggressioni fisiche sempre più frequenti e brutali. Consigliata da una collega di lavoro, si rivolge alla polizia municipale di Torino che l’aiuta a fuggire con la figlia. Nadia arriva in comunità e per lei e la bambina comincia un lungo percorso di consapevolezza che ciò che stava accadendo era qualcosa di sbagliato e che l’amore è fatto di altre cose.

Il problema non riguarda solo le fasce marginali, è diffuso e sommerso. Secondo un’indagine choc dell’Istat datata 2006 – l’unica disponibile – in Italia erano 6 milioni e 743mila le donne tra i 16 e i 70 anni che dichiaravano di essere state vittime di violenza fisica o sessuale nel corso della loro vita. Violenze che nella maggioranza dei casi provenivano da partner e familiari. Violenze coperte da silenzio e vergogna, quasi che la colpa fosse della vittima.

«Un gran numero di donne –  spiega Ornella Obert, referente dell’area Vulnerabilità del Gruppo Abele – non parla delle violenze subite. Solo il 18% considera reato quanto subito, il 44% lo considera sbagliato, il 36% qualcosa che è successo. Senza contare i danni subiti dai bambini picchiati o che assistono alle violenze sulla madre. Tendono infatti a replicare quanto visto e già nell’adolescenza picchiano le madri. Perciò chiediamo che sia inserito nel codice penale il reato di violenza assistita sui minori».
Perché le vittime non parlano? «Senta, in Italia qualche anno fa trasmissioni di intrattenimento quasi giustificavano lo stalking. Gli uomini che odiano le donne invece sono malati, la provincia di Torino ha aperto un centro per maschi con problemi relazionali con l’altro sesso, ascoltandoli affiora la sofferenza. Ma siamo agli inizi».

Per Mirta Da Pra Pocchiesa, giornalista ed esperta del Gruppo Abele, è strategica la formazione delle forze dell’ordine che devono essere preparate ad intervenire adeguatamente quando rilevano violenze nelle case.
«E serve un’alleanza con il privato sociale per prevenire, proteggere e punire anche la violenza sui bambini. Nel caso delle donne straniere la battaglia è impegnativa. Occorre rompere l’isolamento culturale che le porta a ritenere normale l’amore violento».

 

Paolo Lambruschi – avvenire.it
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