ESPERIENZE DI CHIESA Meglio una ‘chiesa accidentata’ che ferma… o no?

Ci sono frasi di Papa Francesco che, fin dall’inizio del suo pontificato, hanno indicato una direzione da prendere per vivere da cristiani il XXI secolo; alcune, come era inevitabile, sono diventate degli slogan, e come tali un po’ svuotate di significato e rese ‘etichette’ utili per ogni iniziativa. Ma esse mantengono una loro forza e una loro luce: una di queste frasi, notissima e ripetuta più volte dal Papa, si trova nel suo ‘documento programmatico’, quell’Evangelii Gaudium densa di profezia e di coraggio: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze» [49]. La formula della “chiesa in uscita” ha qui il suo fondamento magisteriale, avendo pure un necessario complemento nel medesimo paragrafo: «Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: “Voi stessi date loro da mangiare”».

Ora, una chiesa in uscita, una chiesa che cerchi di attuare una «conversione missionaria» [EG 30], inevitabilmente farà errori, inevitabilmente compirà qualche mossa sbagliata: è così che può accadere di vedere una Chiesa «accidentata, ferita e sporca», cioè una Chiesa che nei suoi membri possa commettere sbagli, leggerezze, sbandamenti, finanche arrivando a ferirsi e sporcarsi. Ma l’alternativa, ci ricorda il Papa, è un immobilismo antievangelico poiché non porta né scopre né segue Gesù.

Sono pensieri che mi tornano in mente spesso in queste settimane, quando la cronaca (non solo ecclesiale) racconta di sbagli e leggerezze di alcuni sacerdoti che celebrano la Messa in modo non corrispondente a quanto prevedono le norme liturgiche, vuoi sul materassino in acqua, vuoi in tenuta da ciclista. Leggendo, però, i contesti in cui sono avvenuti tali leggerezze o errori (un campo con i giovani sui temi della legalità, una lunga pedalata siciliana con adulti delle Acli bresciane sui temi della pace), mi pare di vedere quello che scriveva Francesco: una chiesa che prova a uscire, che tenta un modo di ‘dire Dio’, che cerca di ‘avvicinare’ chi magari ha poca confidenza con la liturgia, che costruisce strade nuove e che, in questo tentativo, sbaglia e sbanda, quasi certamente in buona fede. È la chiesa accidentata che, però, tenta almeno un movimento, una chiesa che non si rassegna a stare ferma e per la quale, nelle persone di coloro che compiono errori, dovremmo tutti nutrire misericordia, comprensione, equilibrio di giudizio, richiamando e sottolineando inciampi e leggerezze, ma sempre con sguardo buono e non dimenticando anche il bene che c’è attorno.
Invece, a leggere i duri comunicati pubblici ad personam scritti dai vescovi interessati da quanto accaduto, avverto una severità che stona con un senso di paternità e di misericordia che, mi pare, suonerebbe come più evangelico e più corrispondente a quanto il Papa ci chiedeva e ci chiede. Il che non vuol dire non correggere fraternamente chi sbaglia, ma lessico, toni, modi appaiono sproporzionati e fuori misura. Correggere chi fa un errore, certo: ma invocare gesti penitenziali per fare pubblicamente ammenda (Brescia), imporre una ripresa della formazione come punizione dopo una «sciocchezza senza giustificazioni» (Milano), in lettere con linguaggio davvero poco caritatevole e perfino rese pubbliche, e non ammonendo e dialogando in conversazioni private e personali, ebbene tutto ciò non esprime comprensione, fraternità, accoglienza.

Ci sono casi di ben maggiore gravità e scandalo, anche con risvolti penali, su cui ci sarebbe piaciuto ascoltare qualche parola altrettanto severa dei vescovi e su cui invece è arrivato solo il silenzio, nonostante lo scandalo e lo sconcerto dei fedeli. E per stare alla liturgia, ci sono casi di Messe ugualmente celebrate fuori dalle norme (ben espresse in Traditionis Custodes), su cui si tace. Prestare orecchio e dare spazio solo a certe voci di fedeli scandalizzati, magari molto rumorosi e numericamente poco consistenti, non sembra equo. Anche i sacerdoti, come tutti, hanno bisogno di essere corretti fraternamente, ma anche di essere incoraggiati; di essere rimproverati da chi è padre nella fede, non di essere umiliati pubblicamente; di essere ammoniti, ma non di vedere trattamenti differenziati a seconda del gesto inopportuno commesso; come tutti, anche i sacerdoti meritano di essere trattati con umanità e da adulti.

L’impressione, allora, è che forse sia meglio evitare di seguire quel ‘meglio un chiesa accidentata ma in uscita’, se poi arrivano reprimende e rampogne di tal peso e di tale portata pubblica. C’è un rischio, credo, e cioè che si affermi il messaggio implicito per cui è meglio stare fermi, perché chi fa, rischia di sbagliare e sbagliando si trova inflessibilità. Ma così, ugualmente, si corre un pericolo, e cioè di fare proprio quello su cui ci metteva in guardia Evangelii Gaudium, ovvero di vivere «la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli».
E questo, davvero, sarebbe un peccato.