Esperienza religiosa e psicologia

Giovanni Cucci – La Civiltà Cattolica – Elledici

di Pietro Andrea Cavalieri – Città Nuova

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Nella società di oggi, a differenza di quanto comunemente si creda, è notevolmente aumentato il bisogno di dare un significato alla propria vita, è cresciuto l’interesse nei confronti di esperienze spirituali in grado di appagare la “fame di senso” che caratterizza l’uomo contemporaneo. La dimensione religiosa si conferma, anche per il nostro tempo, una realtà che non può di certo essere eliminata, né tanto meno ignorata dalla ragione e da tutte quelle discipline che, a vario titolo, indagano sull’uomo e sulla mente umana.
 
Lo psicologo americano William James, più di un secolo fa, auspicava un costruttivo dialogo fra esperienza religiosa e psicologia. Sono trascorsi tanti anni, ma un tale auspicio risulta ancora oggi clamorosamente disatteso e notevoli elementi di diffidenza permangono fra quelle che potremmo definire “le due parti in causa”.
 
In verità, soprattutto in questi ultimi decenni, non sono mancati incoraggianti segnali di un reciproco e graduale avvicinamento. All’interno dell’esperienza religiosa è maturata sempre più l’esigenza di un confronto aperto con le scienze umane e la disponibilità a mettersi in discussione. Nell’ambito della psicologia sono venute meno quelle aprioristiche e rigide preclusioni che un tempo riducevano la vita spirituale ad un evento puramente “illusorio”, se non addirittura “patologico”.
 
Al non facile dialogo fra esperienza religiosa e psicologia Giovanni Cucci, gesuita e docente di psicologia alla Gregoriana, dedica un bellissimo libro, intessuto di spunti molto originali e ricco di dense riflessioni, supportate da una vasta e puntuale bibliografia. Con uno stile lineare, che coniuga felicemente la chiarezza espositiva allo spessore della ricerca teorica, l’autore passa in rassegna alcune fra le più complesse problematiche che contraddistinguono il confronto fra il sapere della fede e il sapere della psicologia.
 
Attraverso una serrata analisi delle argomentazioni con cui Freud critica la religione, Cucci affronta una questione di fondo molto rilevante. Le riserve espresse dalla psicoanalisi nei confronti della religione compromettono definitivamente ogni possibilità di dialogo? O, piuttosto, costituiscono soltanto un “apparente” ostacolo? Un ostacolo, cioè, che può trasformarsi di fatto in una preziosa risorsa per entrambe le prospettive di conoscenza?
 
Pur riconoscendo su diversi punti come datata e criticabile la riflessione di Freud, Cucci sa cogliere in essa preziosi spunti in grado di trasformarla in una risorsa, in un utile strumento di “purificazione” del discorso religioso. Sulla scia del filosofo francese Ricoeur, egli ritiene che l’esito finale di un confronto fra religione e psicoanalisi non sia tanto la distruzione della religione stessa o, più in generale, della morale, quanto piuttosto un invito a tornare alle origini, una messa in guardia dalle deviazioni e dalle chiusure autoreferenziali, una salutare critica ad atteggiamenti narcisistici e consolatori, che spesso contraddistinguono il discorso religioso.
 
Le critiche di Freud, in realtà, possono favorire il superamento di una impostazione religiosa esclusivamente fondata sul dovere. Possono condurre ad una fede e ad una morale capaci di valorizzare il desiderio, senza considerarlo un possibile avversario. Esiste, infatti, una “patologia del dovere” in grado di imprigionare l’uomo e il suo sano desiderio di vivere.
Se, per un verso, il rigido formalismo delle norme e delle leggi rassicura e fornisce certezze, per un altro verso esso espone la proposta religiosa al rischio di tramutarsi in un impoverimento dell’esistenza, in una sterile collezione di divieti, in un ostacolo al desiderio, in un disconoscimento del valore della coscienza.
 
Freud, inoltre, ha intuito l’esistenza di una forte correlazione fra funzione del padre e rappresentazione di Dio. Tale geniale intuizione ha aperto la strada ad una serie di riflessioni, approfondite poi da altri psicoanalisti, che pongono in rilievo l’importanza delle figure genitoriali e della vita affettiva nello sviluppo religioso durante l’infanzia. La fiducia di base, che il bambino acquisisce in famiglia, risulta decisiva non solo per una positiva visione di sé e del mondo circostante, ma anche per il suo stesso sviluppo religioso e morale, per l’originarsi in lui di una significativa relazione con un Dio Padre che lo ama personalmente e con affetto materno.
 
Da Freud in poi la psicologia ha considerato Dio come una rappresentazione interna nella quale confluisce l’intero patrimonio di conoscenze, di affetti, di relazioni che caratterizzano il corso dello sviluppo di ciascun essere umano. Al di là del professarsi credente o non credente, la rappresentazione che ognuno ha di Dio riveste un ruolo molto significativo sulla sua psiche, sulla sua visione della vita, sulla concezione di se stesso e del mondo.
Cucci sottolinea come la rappresentazione di Dio non sia da leggersi in un’ottica rigidamente intrapsichica, ma trovi un suo fattore decisivo nella relazione, nell’esperienza affettiva realmente vissuta dal bambino e nel livello di maturazione che ne discende.
 
La rappresentazione di Dio costituisce una condizione di base, una visione da cui può scaturire la decisione di aprirsi alla vita, di giocarsi con fiducia o di chiudersi per paura di subire nuove e ulteriori ferite. Se vengono meno le relazioni sperimentate all’insegna della fiducia, dell’affetto, dell’ordine, l’essere umano si ripiega in se stesso, si rifiuta di vivere, sprofonda nei più complessi labirinti della sofferenza psichica.
 
La rappresentazione di tipo religioso svolge, in ogni uomo, l’importante compito di unificare il suo sviluppo cognitivo, affettivo, interpersonale, facendolo poi sfociare in una significativa e coerente visione della vita.
Non a caso, psicologi di orientamenti diversi concordano nell’affermare che l’evoluzione del senso religioso coincide, per molti aspetti, con le principali tappe che segnano lo sviluppo psichico di ogni bambino. In questa prospettiva, Dio diventa “una totalità di senso” che non rimanda ad una astratta dimensione concettuale, quanto piuttosto ad una convinzione, ad una “fiducia di base”, alla possibilità cioè di “potersi fidare” perché fidarsi ha “senso”.
 
Freud ha associato l’illusione alla fede religiosa. Gli psicanalisti a lui successivi hanno invece scoperto nell’illusione non un elemento negativo da eliminare, ma un aspetto basilare per lo sviluppo delle capacità ideative e affettive del pensiero umano. L’illusione racchiude in sé l’inestimabile potere di attribuire nuovi significati, di leggere in modo creativo la realtà, di plasmarla e di intervenire su di essa modificandola.
 
La critica di Freud, a giudizio di Cucci, è in realtà rivolta ad una religiosità magica che offre illusioni e garanzie a buon prezzo, fatta di ipocrisia, di superstizione, di paura e di immaturità psichica. L’attacco di Freud a questo tipo di esperienza religiosa costituisce di fatto un invito a “purificare” un certo modo di vivere la fede, da cui nessuno è esente, e a superare una relazione con Dio interpretata in termini puramente legali.
 
Tuttavia, osserva Cucci, l’esperienza religiosa cristiana è molto ben diversa dalla religiosità, per lo più naturale e spontanea, a cui si riferisce l’analisi freudiana. L’esperienza cristiana smentisce clamorosamente l’interpretazione che Freud dà della fede come risposta illusoria al bisogno reale, alla paura dell’ignoto e della morte.
Se la paura della morte sarebbe all’origine della fede, allora è necessario ricordare che per il cristiano la morte in croce di Gesù costituisce l’evento centrale del suo credo. Un Dio che muore in croce, che esalta i poveri e i piccoli, che invita alla gratuità e al dono di sé, è un Dio psicologicamente “disfunzionale” ad una esperienza religiosa che nasce, invece, dal bisogno e dalla paura.
 
Altro argomento, a cui il libro di Cucci dedica un considerevole spazio, è il rapporto fra morale e religione. La riflessione della psicoanalisi e della psicologia sul tema della moralità non è molto vasta, né adeguatamente approfondita. Per Freud l’agire etico non è alimentato da una motivazione interiore. Esso, piuttosto, è il risultato di un compromesso tra istanze pulsionali e divieti interiorizzati, a loro volta imposti dalla famiglia e dalla società. La morale, nella prospettiva psicoanalitica, rimanda alla patologia di chi non riesce ad esprimere le proprie pulsioni, alle dinamiche repressive tipiche della nevrosi.
L’attuale ricerca, invece, mostra come il bambino, sostenuto da adeguate relazioni affettive, apprenda le regole morali prima ancora che abbia luogo un conflitto in lui o nel rapporto con i genitori.
 
La rigida conformità a regole imposte dall’esterno sarebbe in realtà da collegarsi ad un carente sviluppo del bambino e delle sue potenzialità. A interessarsi dello sviluppo morale, senza subire l’interferenza di limitanti preconcetti, è stata la psicologia dello sviluppo, soprattutto attraverso gli apporti di Piaget e Kohlberg. Quest’ultimo, più del primo, ha saputo cogliere il forte nesso che unisce fra loro cognizione e affetto nello sviluppo morale del bambino.
Le riflessioni di Kohlberg sul senso morale, però, non tengono in alcun conto dell’elemento religioso e si muovono nell’ambito di concetti già espressi dal “contrattualismo” tipico della filosofia moderna. In questa prospettiva contrattualista il criterio di riferimento della morale è costituito dalla tutela della libertà individuale e dalla necessità di garantire relazioni di giustizia.
 
Ma, si chiede Cucci, cosa accade quando si profila una “asimmetria” fra il mio agire e quello dell’altro? Quando, cioè, il “contratto” non funziona e il giusto contraccambio non è garantito? Quando la fedeltà ai valori e la coerenza morale non sembrano pagare? Di fronte a queste situazioni, per rimanere fedeli ai modelli di comportamento prescelti, è necessario un ideale più alto, occorrono delle motivazioni interiori di gran lunga diverse da quelle prodotte dal freddo calcolo economico o dal semplice compromesso a carattere contrattualista. E’ possibile, incalza Cucci, una morale senza religione?
Nella vita umana ogni scelta implica una rinuncia a qualcos’altro. Ogni scelta rimanda l’uomo alla realtà del suo essere limitato, alla necessità ineliminabile della rinuncia. Si tratta di un “ascetismo naturale” che implica la capacità di vivere l’essenziale, di “morire a se stessi”.
 
In definitiva la ricerca di una pienezza di vita nelle proprie scelte rimanda sempre alla necessità di trovare “il significato della propria morte”. Ed è in questa inevitabile ricerca di significato che si inserisce “la possibilità di una relazione salvifica con la morte di Cristo”. Rapportarsi con essa dà al credente la possibilità di “saper morire” ogni giorno, nelle azioni e nelle decisioni della sua vita quotidiana. Come se “imparare a morire” sia al contempo il segreto per “imparare a vivere”. Da ciò consegue che ogni scelta morale rivela sempre in sé una forte connotazione religiosa. Ogni scelta morale, infatti, costituisce una “affermazione di vita” di fronte al proprio limite, alla propria morte.
 
“Il problema che la rinuncia pone all’atto morale concreto della persona – afferma Cucci – indica come la prospettiva cognitiva, così come quella contrattualista, risultino insufficienti a fornire una risposta appropriata”. Rinunciare ai propri bisogni, scegliere di “morire” ad essi, è possibile solo ponendosi in una prospettiva che invita ad “uscire da se stessi” e che si è confrontata in modo esplicito con la verità della propria morte.
 
Tale prospettiva può essere motivata e sorretta soltanto dall’orizzonte autotrascendente dato dalla fede, cioè “dall’atto di consegnarsi all’Altro da sé”. Infatti, la pienezza totale a cui aspira l’uomo è fuori dalla sua portata, non può essere conquistata, ma soltanto accolta come “dono”. Qui, avverte Cucci, ci troviamo di fronte al paradosso fondamentale dell’esistenza umana: “la realizzazione di sé non si raggiunge quando è cercata come fine in se stesso, ma arriva in modo indiretto, non intenzionale, senza calcoli, come espressione del dono di sé”. In questo paradosso, al pari della soddisfazione e del piacere, la pienezza di sé arriva sempre come “momento secondo”.
 
I capitoli dell’ultima parte del libro sono dedicati al tema della conversione e della mistica. In essi, con puntuali argomentazioni, l’autore pone in evidenza la sanità psicologica dell’esperienza di fede e sfata molti luoghi comuni ancora duri a morire. Di particolare rilievo sono le riflessioni sul ruolo del gruppo nell’esperienza di conversione e l’accento sulla corporeità nell’esperienza mistica. Il libro si chiude con un interessante e originale capitolo su alcuni “luoghi privilegiati” dove il discorso di Dio può trovare espressione: l’eros, l’immaginazione, la bellezza, il simbolo, il gioco.
 
Un filo d’Arianna attraversa l’intera opera e conduce alla conclusione che psicologia e fede possono dialogare. Anzi, il loro dialogo risulta fondamentale per entrambe, in una reciproca e circolare tensione dialettica tra credere e comprendere. Il confronto critico con la psicologia può aiutare la fede di matrice cristiana a purificare se stessa da pericoli, ambiguità e derive malate che ancora oggi la insidiano, restituendola ad una salutare “ingenuità” e soprattutto all’immediata semplicità delle origini. La fede cristiana, d’altra parte, è in grado di fornire alla ricerca psicologica un prezioso contributo, offrendo ad essa quelle basilari risposte sul senso dell’esistenza a cui l’uomo di oggi è tanto interessato.
 
Dopo aver finito di leggere il libro di Cucci, si ha la netta sensazione di avere fra le mani un dono, quasi un atto d’amore, che l’autore ha voluto consegnare al suo lettore, non solo per informarlo del suo sapere, ma anche per condividere con lui la sua più intima esperienza di uomo di fede e al contempo di studioso della psiche umana.