Enzo Bianchi: «Ai laici vorrei dire: basta ateismo, restate in ricerca»

Una fede detta in modo più «antropologico», un ateismo non dogmatico ma aperto alla ricerca. Per Enzo Bianchi, prio­re della comunità monastica di Bo­se e apprezzato biblista, sono que­sti due i poli di un’auspicata stagio­ne di confronto tra laici e credenti.
 Cos’era e cosa dice oggi la figura del «cortile dei gentili»?
 «Era la parte più esterna del Tempio di Gerusalemme, che si divideva in tre zone: una per il popolo di Israe­le, una per i sacerdoti, e poi il San­to dei santi. Attorno vi era uno spa­zio con un colonnato delimitato da un muro. Qui potevano entrare i gentili, come atte­stato da un’iscrizio­ne rinvenuta su questa parete, quel­la di cui Paolo parla nella sua lettera agli Efesini quando scri­ve di un ‘ muro di divisione’ tra il po­polo eletto e le gen­ti. Il cortile era una zona di silenzio do­ve alcuni rabbini e­rano disponibili a parlare su Dio e sul­la Torah. Giusta­mente Benedetto X­VI auspica che tra cristianesimo e i di­versamente cre­denti vi sia una pos­sibilità di dialogo. L’atrio dei gentili costituisce una cifra in cui è possi­bile ravvisare un confronto in cui ci si ascolti a vicenda e dove chi non è cristiano possa dar corso al proprio indagare».
 Oggi c’è questo spazio di dialogo?
 « Abbiamo avuto negli ultimi de­cenni alcuni esempi, come la Cat­tedra dei non credenti del cardina­le Martini a Milano. Anche qui a Bo­se si fa in modo che non cristiani e atei possano essere ascoltati sulla fede e il senso della vita. Penso che ogni Chiesa locale dovrebbe trova­re una possibilità simile. Molte ini­ziative vengono fatte da non cri­stiani che invitano i credenti: non è che noi cattolici siamo più audaci e irrequieti nel cercare il dialogo! Spesso si vede tutto questo ai festi­val delle varie città».
 Diversi interlocutori credenti han­no rilevato una necessaria purifi­cazione della fede. Cosa significa questo a livello culturale?
 «Credo che dobbiamo tener conto di quanto Benedetto XVI afferma, ovvero l’esigenza di purificare la ra­gione. C’è bisogno di pazienza e au­dacia per mettere la fede al vaglio della ragione e saper rispondere a chi chiede le ragioni del nostro cre­dere. Non in nome di un razionali­smo stretto ma per il fatto il logos,
 r iflesso del Logos divino, accomuna gli uomini. Questo è il primo sfor­zo da fare, ma ci crea difficoltà: dob­biamo parlare un linguaggio antro­pologico, non teologico e dogmati­co, per far capire a tutti che quello cristiano è un cammino di uma­nizzazione. Per far comprendere che tra fede e antropologia non c’è antagonismo, ben­sì che il cristianesi­mo è a servizio del­l’essere umano».
 Lei ha spesso mes­so in guardia il mondo ecclesiale dalla tentazione del clericalismo. Cosa vorrebbe chiedere ai non credenti?
  «Che la loro condi­zione di ateismo non sia un dato as­soluto ma una con­dizione di ricerca. Chiederei loro di re­stare in una laica ri­cerca di apertura. E aggiungerei: scon­figgiamo insieme il dogmatismo. Altri­menti ne nasce un dualismo che ha la sua ragione d’es­sere nell’offrire solo le proprie po­sizioni senza che ci sia un confron­to vero. Su questo la situazione in I­talia è diversificata: vi sono alcuni laici che, inseriti in questo atteg­giamento di ricerca, non vogliono stare immobili in dogmatismi sul non credere e si mettono in cam­mino. C’è poi un’altra parte in cui l’anticlericalismo è tale che scivola in un ateismo degradato e che ri­fiuta tutto quello che concerne la fede. Questi dimenticano che la fe­de è anzitutto un atto umano. Il pri­mo passo del credere è davvero u­mano e per questo dovremmo con­siderarlo qualcosa che ci unisce. L’a­more tra un uomo e una donna, l’a­micizia, la politica come possibilità di costruire la polis sono tutti atti di fede e di fiducia nel fatto che può e­sistere un legame, una storia, una politica». (di Lorenzo Fazzini – avvenire)