Elzeviro. L’arte sacra non privi Cristo della sua carne

«Se le porte della percezione fossero purificate, tutto apparirebbe all’uomo come in effetti è, infinito», scriveWilliam Blake in The Marriage of Heaven. Grande verità, ma non quella che si pensa. Senza la percezione il mondo non esisterebbe per noi. Conosciamo il mondo attraverso la percezione. Esaltata ed esecrata, ridotta a diaframma che ci separa dal reale, la percezione è il vero tramite della nostra conoscenza esperienziale. Il tramite del nostro contatto. In definitiva se il mondo è diverso nella sua essenza scientista, a noi non riguarda veramente granché. Perché la sua multiforme ricchezza deriva dalla orchestrazione perfetta della sua sostanza con la decodifica del nostro apparato percettivo.

Chi ha esperienza di piccole o grandi alterazioni delle terminazioni nervose sa che i piccoli cavi elettrici dell’apparato percettivo sono in grado di sfidare la cognizione stessa degli spazi. Creano spessori dove non ci sono, caldo o freddo a piacimento, sensazioni di pressione e volume che possono esistere esclusivamente nella sfera neuronale. Questo indipendentemente dalle effettività del mondo esterno. Il primato della percezione nella conoscenza è evidente. La pedagogia stessa di apprendimento in tutti i tipi di relazione che instauriamo col mondo esterno. La coscienza della centralità della percezione abolisce in un attimo tutti i conflitti tra riduzionisti e visionari. L’empirismo non è in contrasto con la conoscenza per intuizione. Ma la gerarchia si deve ribaltare: la conoscenza attraverso il meccanismo che non precede ma segue l’esistenza, accidente applicato alla sostanza, è in realtà superiore e fondante, perché è la finalità vera della sostanza che in sé non ha significato per l’uomo se non vi viene applicato un evento. Questo evento è la percezione.

Se lo spazio cambia ma noi non possiamo percepirlo, il cambiamento in relazione alla nostra identità è come se non esistesse. Se invece la nostra percezione cambia, attraverso ad esempio il malfunzionamento di un terminale nervoso, non importa che il mondo esterno sia cambiato. Per noi è cambiato e l’urgenza e potenza del corpo ci fa agire come se lo fosse. Si può dire: il mondo sono io. Perché la relazione che ho col mondo avviene attraverso una serie di mediatori che sono sì strumenti, ma finiscono per incarnare il senso stesso dell’altrove. Durante l’infanzia per un periodo sono stato preso da un dilemma che sembrava un incubo. Avevo letto da qualche parte il dialogo biblico del roveto ardente. Il fuoco che parla perché è Dio. Avevo trovato terrificante il fatto che Dio, questo signore con la barba, immenso e comprensivo, fosse una fiamma. Troppo distante da me. Come mi relaziono con una fiamma? Quale dose di umanità, di prossimità alla mia esistenza poteva avere una fiamma? Io cercavo volti, persone, e trovavo che la fiamma fosse una distanza incolmabile tra me e una entità potente quanto si vuole, ma disumana. L’Uomo sudato e polveroso della Galilea è stata la risposta. Prossimità, condivisione di fatto. Diversamente un Dio che è fiamma, che è luce, in definitiva ideologico e alieno lo avrei rifiutato anche nella convinzione della sua esistenza.

Torniamo alla percezione. È chiaro che per quello che sappiamo oggi, la luce è materia esattamente come il mio braccio, e come un sasso. Ma la materia tutta identica nella sua intima composizione, ha preso forme differenti. E perché? Perché se ci fosse stato donato un mondo fatto esclusivamente di differenze di potenziali, la noia sarebbe stata mortale con buona pace di Maxwell. Il senso insignificante, un sudario di onde elettromagnetiche tutto uguale, il cui senso sarebbe stata una dichiarazione mortale piuttosto che di esistenza. Invece, come per incanto queste onde elettromagnetiche sono diventate una inimmaginabile teoria di forme, colori, suoni, odori, sapori, pensieri e persone. Il metodo non può sfuggire al senso. E il senso è legato alla mirabile capacità che ci è stata data di percepire e di apprezzare, di sentire, di vedere, di incontrare. E la pedagogia della percezione del Dio è coincisa con la persona. Col corpo. Con la carne.

Le conseguenze sono innumerevoli. Una per tutte ha a che fare con lo spazio sacro. Territorio della percezione. Il sacro si comunica attraverso quello che noi percepiamo. La ricerca della incorporeità, così di moda, se è interessante in un museo di arte contemporanea (comunque ormai obsoleta anche in quel campo), in una chiesa, senza alcuna necessità di spiegazione, è la inoculazione diretta del senso dell’assenza del corpo. In una chiesa cattolica finisce per contraddire l’essenza stessa del racconto cattolico, così come ci è stato passato. Difficile per me pensare che l’Uomo polveroso sudato e potentemente carnale e intenso, sia diventato nel tempo, per compiacere una visione intellettualistica in voga, una parete celestina con lampade led a potenziometro. Se una chiesa è cattolica vive come tutti gli altri spazi di percezione diretta, per tutto ciò che ho scritto sopra. Se utilizza un linguaggio che ne nega la sostanza, cioè il corpo, finisce il senso stesso di fare una chiesa, se non per accontentare questo o quell’architetto-geometra, o per le ambizioni di qualche committente che aspira alla sciarpetta d’oro dell’apparato para-mistico radical chic.

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