Educare è ancora una vocazione?

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«La scuola è luogo dove si impara ad amare il prossimo» ha detto l’arcivescovo di Trento. «Per educare in famiglia e a scuola si richiede intelligenza del cuore» scrive il salesiano Sandro Ferraroli. Genitori e insegnanti che ne pensano? E i giovani che si affacciano al mondo del lavoro?

Ultime settimane di lezioni e poi scrutini ed esami, fino a metà luglio per i più grandi. Ma nella scuola è anche il tempo della formazione degli organici, delle acquisizioni delle domande di pensionamento docenti e definizione dei nuovi ingressi. Una generazione che lascia e una che entra.

Per chi esce si tratta di un imperativo morale: al raggiungimento dell’età pensionabile – senza troppi conti di scatti o “convenienze” varie – la richiesta di dimissioni dal servizio (come recita il politically correct) rappresenta il minimo supporto generazionale alla schiera di giovani aspiranti docenti che ingrossa le fila delle diverse graduatorie. Dei quali, talvolta, rappresentano un’incognita le motivazioni. Ma forse è sempre stato così.

Tra quanti escono in certe scuole oltre il 50% è arrivato ad ottenere una cattedra senza mai aver superato un concorso: per quasi trent’anni si poteva aver l’avventura di entrare di ruolo con soli 180 giorni di supplenza (festività e ferie comprese). Talvolta per caso fortuito: è il caso di laureati in architettura che, dopo supplenze in graduatorie sguarnite sono andati in ruolo di chimica o farmacisti che si sono trovati ad insegnare matematica. Poi c’è lo squadrone delle lauree letterarie con alcuni che – citazioni precise – si sono «accontentati» di insegnare italiano o filosofia dopo anni passati a correggere bozze in qualche redazione (talvolta pubblicando anche qualche pezzo) sperando nel «salto», che non è mai arrivato. E, detto tra parentesi, possono aver anche costituito un ottimo guadagno per la scuola, mentre non sapremo mai cosa abbia perduto il giornalismo (a anche altre professioni, ma limito alle due che conosco).

Quanti hanno ottenuto lauree ad indirizzo didattico o hanno scelto di aggiungere corsi di psicologia dell’età evolutiva (magari neppure valutati nel computo finale) davano qualche garanzia in più di voler davvero diventare insegnanti, ma non è detto neanche quello.

Di certo chi ha percorso chilometri da pendolare per raggiungere scuole di periferia a distanza di 1-2 ore di viaggio qualche motivazione doveva pur averla.

Ciò che accade oggi si discosta un po’: ai sociologi l’analisi dei dati. A fronte di graduatorie infinite, le scuole di periferia – che per quanto riguarda la mia regione significano di valli con relative strade di montagna – restano perlopiù sguarnite e per settimane, talvolta anche 2-3 mesi i docenti accettano e lasciano. Come dire: piuttosto disoccupati che insegnanti a 50 km dalla città. Di fatto, in periferia è più facile incontrare docenti che arrivano da fuori regione, anche da migliaia di chilometri, che cittadini.

Eppure esistono ancora giovani mamme che, con acrobazie incredibili cui solo i genitori sono capaci, risalgono ancora le nostre valli per arrivare in scuole lontane perché, oltre al guadagno per sostenere contribuire al bilancio familiare, credono nell’educazione dei più giovani mediate la trasmissione di un briciolo di cultura disciplinare, che amano. Meno accade tra chi una famiglia non l’ha ancora formata e, in un certo senso, sarebbe più libero/a da orari e impegni. Un cambiamento generazionale.

In un corso di aggiornamento giornalisti un direttore accennava all’assedio dei laureati alle redazioni forse attratti dal «totem della visibilità» (anche qui citazione precisa), come se una firma pubblicata ogni tanto, in stand by, potesse sostituire un lavoro quotidiano, per esempio a scuola, magari nell’ombra di un istituto di valle.

Questione di vocazione, leggi anche stile di vita. Ma esiste la vocazione all’insegnamento? Educare i più giovani, dai piccolissimi in su ha ancora un senso per chi si affaccia al mondo del lavoro? E per un cristiano cosa significa “educare”?

Certo lo sapevano quelle schiere di religiosi, spesso Fondatori, appartenenti a congregazioni che hanno accolto generazioni di bambini e ragazzi poveri per fornire loro quell’istruzione che la famiglia non poteva permettersi in anni di precettori privati e simili.

Ne erano consapevoli quanti, negli anni di ingressi di massa, sono saliti in cattedra? E oggi lo sono i nuovi che arrivano?

«La scuola è luogo dove si impara ad amare il prossimo» ha detto il nostro arcivescovo Lauro Tisi alla scuola cattolica trentina. Una bella definizione, sintetica com’è il suo stile. Che non si limita all’ambito dell’educazione cattolica, se pure un mondo lontano anni luce da quello della scuola statale o provinciale che sia.

«Per educare in famiglia e a scuola si richiede intelligenza del cuore, che non sta (solo e principalmente) nei manuali, ma nella capacità di aprirsi all’altro dell’educatore, cioè nel suo volere amare l’altro in quanto soggetto e non in quanto oggetto della sua azione educativa». Parola di don Sandro Ferraroli, 80 anni, un salesiano che dell’educazione ha fatto una scelta di vita (congregazione di don Bosco) e di servizio (docente di psicologia all’università salesiana a Roma e ora a Brescia e presidente FIDAE dell’Emilia Romagna) nel suo ultimo testo «Educare a crescere per uno stile di vita autentico» (LAS 2017).

Non ricette a buon mercato, ma parole che obbligano a riflettere. «L’arte di educare non è per gente pigra! Impiantare un uomo nuovo richiede un insieme di mosse magnifiche, ma impegnative. Perché educare non è salire in cattedra, ma è tracciare un sentiero».

Tracciare un sentiero non significa stare alla finestra, bensì mettersi in marcia. Talvolta con sudore e fatica, anche macinando chilometri da pendolare «se» questa è la mia strada.

E, se questo vale per ogni professione, siamo capaci di trasmettere questa convinzione ai nostri figli, ai giovani che incontriamo? «Ogni» vocazione – di condizione di vita o di lavoro – si sceglie e si abbraccia con slancio e convinzione, costi quello che costi, se è la mia strada. Perché non esistono scelte a metà, né si lasciano aperte vie di fuga.

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