Donne: se la violenza nasce da un confinamento di ruolo

CARLA COLLICELLI

Le società moderne vengono descritte spesso come società femminili, nate sulle ceneri delle precedenti «società di uomini» grazie al farsi strada di una cultura di attenzione alla relazione e ai valori umani, tradizionalmente propria delle donne. Non tanto quindi un passaggio pendolare a tutto ciò che non era e non è maschile, quanto piuttosto un approccio alla complessità basato sulla conciliazione delle differenze e sulla integrazione tra ruoli e approcci maschili e femminili, nella vita privata come in quella pubblica. Una formula vincente, secondo alcuni, e utile per la soluzione di molti problemi deleteri per l’umanità e la socialità, come l’individualismo, la personalizzazione del potere e la prevaricazione dei forti sui deboli. Al raccapriccio suscitato dai tanti casi di violenza sulle donne, verificatisi anche in questo periodo estivo, si affianca quindi un legittimo stupore di fronte al perpetuarsi di forme di aggressione così gravi e di comportamenti tanto primitivi in un contesto che sembrerebbe andare in un’altra direzione. In realtà, il ruolo delle donne nella società mostra tendenze contraddittorie. Da un lato è evidente la crescita del peso e della qualità della componente femminile in diversi contesti, dalla scuola (93 ragazze in età scolastica su 100 iscritte alla scuola superiore contro le 7 su 100 del 1950) al mercato del lavoro (51 donne attive su 100 contro 21). Dall’altro lato, permangono dinamiche di esclusione, di confinamento in aree marginali, e di degenerazione dell’immagine delle donne, altamente preoccupanti. Continuano a costituire aree di esclusione lavorativa le posizioni dirigenziali e i lavori tecnici: le donne sono circa un quarto degli uomini tra i legislatori, dirigenti e imprenditori e un sesto tra gli operai specializzati, gli artigiani e i conduttori di impianti. In ambito politico, nell’attuale Parlamento le donne rappresentano circa il 20% dei deputati e dei senatori, a fronte di percentuali più elevate in tutta Europa. A queste aree di ‘quasi-esclusione’ si affiancano altri ambiti lavorativi e sociali fortemente femminilizzati, ma in decadenza: una sorta di confinamento laddove l’interesse e l’impegno maschile sono venuti a scemare. Oltre, infatti, alla sfera privata della famiglia e del lavoro di cura – dove è evidente il sovraccarico femminile, sia per le ore dedicate, superiori a quelle delle donne di altri Paesi e di molto a quelle degli uomini, sia per il ruolo giocato nel sostegno alle reti di mutuo aiuto – le donne sono molto numerose ormai in varie aree lavorative dal passato prestigioso. Come la scuola, le banche o la posta, che in concomitanza con la recente femminilizzazione (specie delle posizioni intermedie e medio-basse), hanno subito una evidente dequalificazione. Una sorta di presenza quantitativa forte ma senza potere, che si intreccia in molti casi con la diffusione di nuove tipologie contrattuali, dal part-time al lavoro a contratto, che non costituiscono quasi mai una conquista – come è invece spesso il part-time per donne e uomini nei contesti nord-europei – e quasi sempre una scelta forzata, dettata dalla impossibilità di conciliare altrimenti lavoro e famiglia. Né si può tacere delle degenerazioni più gravi, quelle dell’immagine femminile soprattutto nel mondo dei mass-media. Spettacolo, moda, bellezza, estetica, da un lato, e violenza, criminalità e sciagure, dall’altro, sono i temi per cui la donna viene chiamata in causa più spesso nei mass-media, secondo i dati del Censis. Percentuali minime riguardano temi quali la formazione, il lavoro o l’impegno sociale, che pure interessano molto da vicino le donne. I casi di violenza perpetrata ancora oggi da mariti, padri, fratelli, datori di lavoro o colleghi sulle donne pongono inquietanti interrogativi rispetto al permanere di sacche di rifiuto di una cultura del dialogo e della condivisione e di considerazione della donna alla stregua di un soggetto da dominare.
avvenire 3 settembre 2010