Dio si dissocia dalla prepotenza. Su una riflessione teologica di Giovanni Cesare Pagazzi

L’Osservatore Romano

(Pierangelo Sequeri) Non c’è dubbio che l’idea del potere goda di una cattiva fama. Essa è direttamente associata alla prepotenza, più ancora che alla potenza: e da ciò deriva «un pregiudiziale sospetto, spesso risentito e superficiale, verso qualsiasi espressione di potere».
La teologia, ma in generale la lingua cristiana più corrente, disegna frequentemente la forma cristiana come l’opposto delle «logiche del potere»: sia dal punto di vista delle relazioni personali sia dal punto di vista della istituzione comunitaria. Non solo. La teologia si è fortemente impegnata, in questi decenni, a liberare l’immagine stessa di Dio dall’equivoca assimilazione del suo “potere assoluto” alle forme di una “potenza dispotica”, arbitraria, prevaricante: insomma, tutta declinata dalla parte della forza divina che costringe senza giustificazione e senza scampo. Certo, contrastare un’immagine della potenza che si lascia assorbire interamente dalla prepotenza è indispensabile. La rivelazione del Crocifisso, in cui il Figlio si consegna alla violenza della sua condanna in nome di Dio e a motivo del peccato del mondo, che respinge a un tempo l’amore di Dio e l’amore del prossimo, chiede alla fede la forza di accogliere con gratitudine commossa, e con ferma determinazione, la rivelazione della logica della “debolezza” di Dio, che unisce il destino del Crocifisso a quello delle vittime della prepotenza umana.
Dio si dissocia dalla prepotenza, rinunciando ad aggiungere violenza alla violenza, per riaprire il tempo della confessione del peccato e della conversione del cuore, che devono vergognarsi e chiedere perdono della loro complicità con le orribili potenze del male. Questa rivelazione dell’alleanza di Dio con le vittime di tutti i poteri forti che insidiano la storia — spesso invisibili e inafferrabili, come dice Paolo, perché abitano dell’aria e del sottosuolo — è la nostra fede, la nostra speranza, la nostra forza.
La nostra forza, appunto. Ecco il nodo sul quale vuole riaprire la mente — non solo quella dei teologi, ma anzitutto quella dei credenti (e di tutti) — il bel volume di Giovanni Cesare Pagazzi (Tua è la potenza. Fidarsi della forza di Cristo, prefazione del cardinale José Tolentino De Mendonça, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2019, pagine 160, euro 20). Il punto focale dell’intenzione di questo saggio è presto detto. «Potenza» è un nome biblico di Dio, che rimane in evidenza nel vangelo di Gesù. «Fidarsi» della forza di Cristo è una bellissima definizione della fede. «Donare» potenza di essere, soprattutto al vulnerabile, allo scartato, all’avvilito, apre la via alla potenza dell’amore di Dio, che farà misteriosamente risuscitare anche i nostri corpi mortali.
Pagazzi crea un sapiente intarsio di questi tre motivi, portando alla luce l’ordito di una tessitura della rivelazione che fa apparire l’armoniosa composizione di un’unica figura. La potenza affettuosa di Dio è la sostanza delle cose sperate nella fede. Il potere del Figlio riapre la strada della creazione di Dio nelle ristrettezze e nei limiti — inevitabili — della natura e della legge. Resiste saldamente («con corna di bufalo», cfr. Luca 1, 69) a ogni rassegnazione dell’umana impotenza: il possibile di Dio è la certezza della sua potenza. Pagazzi scava nelle pieghe delle sacre scritture, del dogma confessante, della liturgia celebrata e della «mistica oggettiva» della potenza d’amore cui lo Spirito avvolge e coinvolge la creatura, portando alla luce legami dei quali abbiamo perso le tracce. Un Dio senza “forza” è quello al quale ci vogliono assuefare le finte condoglianze di una intelleghenzia senza spina dorsale, interessata a intrattenerci (e a trattenerci) sulla “morte” di Dio. Un Dio della “potenza” di far nascere e rinascere, di far esistere e resistere, attraversa come una scossa benefica il popolo delle Beatitudini, facendoci vergognare, di fronte alla sua incredibile forza, della nostra pavida rassegnazione.
Il teologo illustra felicemente molti altri legami degli affetti e della forza che attraversano la verità di Dio e rendono affidabile la sua promessa di riscatto e la giustizia del suo compimento. Particolarmente suggestivo, per il lettore, il legame di tutti i legami: quello che insedia la potenza del voler-bene nella metafora assoluta del far-essere, ossia la generazione del Figlio. Il «potere di diventare figli di Dio» (Giovanni 1, 12) non è un’adozione ad honorem, un semplice titolo di prestigio, un’enfasi dell’affezione. È un vero potere-di-essere, che lo Spirito crea in noi perché diventi creativo senza fine.
Parafrasando Spinoza — ben oltre la sua fisica e la sua metafisica — il teologo, a questo punto, può lanciare provocatoriamente, anzi rilanciare propositivamente, la sua provocazione: sappiamo noi che cosa può un corpo sotto l’azione dello Spirito della potenza di Dio? L’affezione che indirizza eternamente la potenza di Dio segna la via anche per la nostra fragile necessità di far incontrare per quanto ci è possibile (come segno di che onora la promessa di Dio, destinando i doni ricevuti all’investimento migliore, almeno) il potere e l’affezione, giacché l’esercizio della potenza senza alcuna esposizione al sacrificio per l’altro è certamente infido. Ma l’affezione che si compiace del suo buon sentimento, senza il dono fattivo di un poter-essere che restituisce l’altro e la comunità alla speranza, è seme di avvilimento e di inganno che dovrebbe esserci risparmiato.
In questa prospettiva, il fermento teologico che abita la lettura della potenza nel suo mistero, all’interno dell’intimità del Dio creatore, non sarebbe estraneo alla fecondità di una riflessione meno manichea e più sapiente per lo stesso esercizio umano della potenza di far-essere, che restituisce al ministero del poter-essere — ossia della libertà — gli stessi legami umani della generazione, della genealogia, della comunità. Il potere che segue la logica della creazione e della generazione resiste all’anomia della prepotenza, e onora le promessa dell’affezione. In un tempo come il nostro, una vera benedizione anche per la ragione laica.
L’Osservatore Romano, 16-17 dicembre 2019.