Dieci immagini (più una) simbolo delle Olimpiadi

di Gaetano Vallini

Il fuoco di Olimpia è stato spento. Sui giochi è calato il sipario. Che cosa resterà? Le medaglie, certo, i primati battuti, ma più ancora alcune immagini simbolo, quelle che meglio di altre raccontano questa Olimpiade. Ecco allora dieci cartoline da Londra, da conservare e rivedere.
A cominciare dalla più significativa: quella di Kirani James, poi vincitore dell’oro, che chiede la pettorina di gara a Oscar Pistorius al termine della semifinale dei 400. Un gesto di stima e rispetto per la tenacia del sudafricano. Non era mai successo che un atleta diversamente abile partecipasse all’Olimpiade. Pistorius non è arrivato in finale, ma la sua vittoria più grande l’aveva già conquistata, ottenendo, contro non pochi pregiudizi, di poter gareggiare – qualificandosi – con quelle strane protesi alle gambe per un posto ai giochi. La sua presenza a Londra, dove ha corso arrivando in finale anche la staffetta 4 per 400, ha infranto un tabù.
Resterà, poi, l’immagine della judoka saudita Wojdan Ali Seraj Abdulrahim Shahrkhani salita sul tatami con il velo: la Federazione internazionale di judo e il Comitato olimpico saudita hanno raggiunto un accordo che le ha permesso, tra qualche polemica, di combattere con un particolare copricapo, evitandole di infrangere i precetti della sua religione e i regolamenti, ferrei quanto a sicurezza degli atleti; e il velo era considerato pericoloso. Non ha superato il primo turno, ma è passata comunque alla storia. Per la prima volta l’Arabia Saudita aveva concesso a due donne (l’altra è un’ottocentista) di andare alle Olimpiadi, purché gareggiassero nel rispetto delle tradizioni islamiche: sarebbe stato un peccato perdere l’occasione.
È fin troppo facile mettere in bacheca la cartolina del giamaicano Usain Bolt. Del resto il mito della velocità è forte; e lui, l’uomo più veloce di sempre, non ha deluso. Dopo avere vinto i 100 metri, con record dei giochi, è sfrecciato verso l’oro anche nei 200, come a Pechino: nessuno c’era riuscito in due Olimpiadi.
Carl Lewis è archiviato. Quel dito sulle labbra a zittire gli scettici, mentre taglia il traguardo con relativa sicurezza è il sigillo a un’impresa che lo avvicina alla leggenda. E un altro oro è arrivato dalla staffetta 4 per 100, impreziosito dal primato mondiale. Con Pistorius, è l’atleta immagine di questi giochi, personaggio in pista e fuori. È suo il volto scanzonato, ludico e vincente dello sport olimpico.
E non se ne avrà a male il gigante americano del nuoto Michael Phelps, che nella leggenda c’era già: qui ha “solo” conquistato il posto più alto. Dopo aver superato a Pechino con otto trionfi il connazionale Spitz (che di ori in una sola olimpiade ne aveva vinti sette, Monaco 1972), a Londra Phelps ha sbriciolato il record della ginnasta sovietica Latynina, che dal 1956 al 1964 aveva messo insieme diciotto podi. Mister Olympia ha infatti portato il suo già stupefacente bottino a ventidue medaglie, di cui ben diciotto del metallo più pregiato, diventando l’atleta più medagliato della storia delle Olimpiadi. Come lui, dunque, nessuno mai. Chapeau!
Di record in record, come dimenticare la grinta della canoista italiana Josefa Idem, 48 anni e madre di due figli ormai grandicelli, alla sua ottava Olimpiade, prima donna nella storia a raggiungere questo traguardo. A Londra è arrivata con il bagaglio di un oro, due argenti e due bronzi. Ha conquistato la sua decima finale, e già questa è stata un’impresa, lottando con le più giovani fino all’ultimo per una medaglia, sfuggitale per soli tre decimi di secondo. Dopo la gara ha annunciato il ritiro, senza rimpianti, con il sorriso. E un messaggio: non è mai troppo tardi per mettersi alla prova, per sfidare i propri limiti. Atleta, moglie (il marito è anche il suo allenatore) e mamma, con tanta fatica ma senza sacrificare la famiglia: che spot fantastico!
E di sicuro non è mai troppo tardi se si pensa al cavallerizzo giapponese Hiroshi Hoketsu, in gara nel dressage: con i suoi 71 anni è stato l’atleta più anziano a Londra (“meglio” di lui nella storia solo Oscar Swahn, tiratore svedese che in gara ai giochi di Anversa 1920 a 72 anni e dieci mesi vinse addirittura l’oro). Hoketsu, che ha smesso più volte di gareggiare ma non di allenarsi, avrebbe un sogno: “Mi piacerebbe partecipare ai prossimi giochi a Rio de Janeiro nel 2016, ma non posso. È difficile trovare un cavallo adatto e il mio è ormai troppo vecchio”. Un signore d’altri tempi.
Tornando ai record conquistati gareggiando, come non segnalare i 99 piattelli su 100, nuovo primato mondiale, colpiti dall’italiana Jessica Rossi, oro nel tiro al volo, specialità trap? Dunque, a un solo centro dalla perfezione. Ma proprio quell’unico sbaglio ci fa quasi tirare un sospiro di sollievo, perché ci restituisce l’immagine di un atleta più umano e non una macchina infallibile. E perché quel piattello intatto rappresenta ciò a cui bisogna comunque tendere per migliorarsi.
E umanissima, capace di suscitare simpatia e comprensione, è anche l’immagine della schermitrice coreana Shin A Alm che durante la gara di semifinale di spada con una tedesca, dopo l’ennesima stoccata contesta, quella decisiva, incredula per il verdetto contrario della giuria, scoppia in un pianto ininterrotto: si siede sul bordo della pedana e non si muove per un’ora, mandando all’aria il programma del giorno. C’è qui tutta l’ineguagliabile poesia dello sport, con la sua dimensione epica e al contempo drammatica. Quelle lacrime racchiudono l’inconsolabile amarezza di chi ha dedicato quattro anni della propria vita a prepararsi per quel momento, vedendo tutti i sacrifici sbriciolarsi in un attimo, e con essi svanire quella vittoria che avrebbe dato un senso a tutto. De Coubertain forse non avrebbe approvato, ma avrebbe quantomeno capito e fatto una carezza a quella ragazza.
E l’avrebbe fatta sicuramente alla ottocentista turca Merve Aydin che in batteria, a metà gara, s’infortuna. Eppure, con il viso segnato dalla sofferenza, rallenta, ma non si ferma: all’Olimpiade si tiene duro, il ritiro non è contemplato dopo tanti sforzi; quel traguardo è troppo importante. Sostenuta dal pubblico, l’atleta compie zoppicando il giro più lungo della sua vita, crollando in lacrime subito dopo l’arrivo. Applausi.
Che dire, poi, dello sfortunato ex primatista del mondo del 110 ostacoli cinese Liu Xiang, oro ad Atene 2004, da allora vittima di una sorta di maledizione. Anche a Londra, come a Pechino, dove era presentato quale simbolo della definitiva affermazione del Paese anche nello sport, si è infortunato: rottura del tendine d’Achille prima dell’impatto sul primo ostacolo nella finale. La sua smorfia di dolore e rabbia è l’altra faccia, triste, della nuova superpotenza sportiva mondiale. Ma che bello quel bacio all’ultimo ostacolo, raggiunto saltellando su un piede: un arrivederci, si spera, non un addio. Molte altre immagini – di trionfi o brucianti sconfitte, di lacrime di gioia o delusione – meriterebbero un posto in questa bacheca virtuale dei ricordi, e certo ognuno potrà aggiungere i “suoi” momenti di gloria. Ma forse una in particolare, non proprio sportiva, merita il posto d’onore, fuori concorso: quella della regina Elisabetta ii che, nella cerimonia d’apertura dei giochi, accetta simpaticamente, con regale ironia ed eleganza, di trasformarsi nientemeno che in una Bond girl. Che dire: God save the Queen.

(©L’Osservatore Romano 13-14 agosto 2012)