Cultura… Belli, sani e in forma. Ma la vita è un’altra cosa

«Da duemila anni, ogni generazione di cristiani ha saputo trasmettere ma anche inventare nuovamente la fede. In ciò, il cristianesimo s’ispira pienamente a Cristo che ribaltava così spesso le convenzioni ricordando che, accanto alle regole, l’essenziale è sempre ciò che si vive in profondità». A parlare non è uno storico o un teologo, ma Alexis Jenni, l’insegnante liceale di biologia che nel 2011 ha stupito la Francia conquistando da romanziere esordiente il Goncourt, il premio letterario più ambito, con il ponderoso L’arte francese della guerra, uscito in Italia per Mondadori. Molto legato alla sua Lione, culla storica del cristianesimo d’oltralpe, Jenni ha appena sentito da credente il bisogno di pubblicare una meditazione molto originale proprio sulla fede, Son visage et le tien (Il Suo viso e il tuo, Albin Michel).

All’inizio del libro, lei associa fede e vertigini. Cosa li lega? 
«Soffro di vertigini, ma le cito come metafora di una paura più profonda, certamente molto diffusa nella nostra epoca, quella di un vuoto metafisico. Durante l’infanzia, osservavo un mio carissimo nonno, molto religioso, mentre approntava rituali per evitare questo vuoto. Da parte mia, ho cercato di addomesticare questa paura, giungendo alla conclusione che si può convivere in pace con una sensazione così umana senza negarla. Ci sono modi non luminosi e angoscianti di vivere la fede. Ne ho avuto coscienza molto presto. In proposito, credo che il sentimento religioso non debba fungere mai da semplice consolazione e protezione contro queste paure, ma che possa invece nutrire una vita in sé pacificata e aperta in modo originale alla gioia. Anche la letteratura è divenuta per me un modo quotidiano di cercare la luce e di allontanarmi dalle tenebre. Proprio per questo, sono sensibile alla straordinaria capacità storica del cristianesimo di trasformarsi a ogni generazione, pur restando fedele a se stesso».

Lei cita la «geometria paradossale» del cristianesimo, che implica la possibilità dell’infinito contenuto «nei limiti di una piccola esistenza»… 
«È un punto che in effetti non si può comprendere con la geometria tradizionale: il calarsi dell’infinito e del divino in cose molto concrete. Nel corpo di un essere umano, ad esempio. Il divino implica sempre qualcosa di non rappresentabile, certo, ma per sentieri apparentemente paradossali, possediamo un intuito molto potente, in fondo quotidiano, del divino».

È proprio attraverso i sensi corporei che si articola la sua riflessione sulla fede…
«Il corpo è l’interfaccia fra la materia e lo spirito. Occorre difendere e recuperare una sensibilità al mistero e all’incanto di ciò che ci circonda, senza dimenticare che questa sensibilità transita proprio attraverso il corpo. Mi pare che sia pure uno dei propositi più alti della letteratura. Occorre restituire uno spessore di senso alle cose, anche perché è in questo spessore che nasce ogni entusiasmo. La nostra epoca rischia di finire asfissiata da discorsi completamente disincantati, normativi o stupidamente tecnici. Lo stesso corpo, quando è visto in quest’ottica, genera angoscia: nessuno è mai abbastanza bello, sano o in forma. Ma si può tornare ad osservare il corpo semplicemente come espressione suprema della vita, più che come una macchina efficace».

Questa riflessione è direttamente legata ai suoi trascorsi d’insegnante di scienze naturali e biologia?
«Certamente. Ogni epoca ha cercato di fornire spiegazioni definitive sulla natura e sul corpo. Pensiamo alle spiegazioni d’inizio Novecento, che oggi ci fanno un po’ sorridere. Le scienze offrono spiegazioni molto utili ma parziali, talvolta straordinarie, appassionanti e persino poetiche, ma che arrivano dove possono, non oltre. In particolare, ciò che riguarda la singolarità e la dimensione più intima della persona non può essere descritto dalla scienza, che non è concepita e strutturata a questo scopo. Possiamo descrivere in generale le strutture neuronali del pensiero, certo, ma non cogliere il mistero della genesi dei pensieri in una singola persona. Non penso che la scienza e la fede vadano nella stessa direzione. La scienza serve a comprendere le leggi della materia e dell’Universo. La fede ci permette di cogliere la singolarità di una Presenza. Non è la stessa cosa. Per questo, i tentativi troppo forzosi di combinare e sposare scienza e fede rischiano di farci perdere il senso autentico dell’una e dell’altra. Come credente, non mi pone alcun problema credere alle teorie evoluzionistiche derivate da quella di Darwin».

A un certo punto, lei osserva che «la vita eterna è già qui». È un po’ il nocciolo di quanto vuole esprimere?
«Non si tratta di un modo di negare la vita eterna dopo la morte. Ma del bisogno di ricordare che la figura e la presenza di Cristo sono già in mezzo a noi. Questa presenza può essere percepita in ogni istante e in ogni angolo della Terra. In modo misterioso, il corpo è capace attraverso i suoi sensi di percepire questa presenza. L’intelletto può cercare di concettualizzare ciò, ma è sempre il corpo a generare il sentimento fortissimo di questa presenza. Basta osservare una tela di Caravaggio per comprendere la possibilità di questa presenza. E fra i pensatori, mi hanno molto affascinato Pascal e Spinoza, sempre a cavallo fra concretezza e infinito. Possiamo accedere davvero a pezzi di vita eterna, anche perché pure matematicamente un pezzo d’infinito è già un infinito. Questa vita eterna prima della morte merita a mio avviso di essere vissuta con il massimo d’intensità, perché ci permette ogni giorno di sottrarci alle pure leggi tragiche della materia. E l’essenziale da cogliere giunge per tutti quando meno lo si attende».

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