Cosa ci rende liberi

di GIOVANNI MARIA FLICK
Da una decina di anni – come suggerisce la legge italiana n. 177 del 2000, che ha istituito il Giorno della Memoria – ricordiamo “l’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, e a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati” (così l’articolo 1). Lo facciamo “in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico e oscuro periodo della storia del nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano più accadere” (articolo 2).
Ricordiamo perché – come sta scritto nel lager di Dachau – “coloro che dimenticano il passato sono condannati a ripeterlo”. È giusto; ma dobbiamo fare i conti con le trappole della memoria, che sono numerose. La memoria a comando, negazione del ricordo personale; il dovere della memoria, routine burocratica come i nomi delle strade nelle città; la memoria falsa, per nascondere o creare conflitti; quella ufficiale, priva della critica e dell’analisi storica; quella rancorosa, fonte di risentimenti e divisioni, anziché di coesione.
L’eccesso di memoria rischia di subordinare il presente al passato, di paralizzare la progettualità verso il futuro; l’inflazione della memoria rischia di cancellare il ricordo, sommergendolo nella moltiplicazione delle celebrazioni. La memoria può diventare un alibi per esorcizzare il futuro: ricordare gli orrori e gli errori di ieri per non affrontare quelli di oggi.
Ricordare vuol dire inevitabilmente scegliere: è più giusto ricordare il 27 gennaio 1945 (la fine dell’infamia di Auschwitz), o il 16 ottobre 1943 (la deportazione degli ebrei a Roma), o il 17 novembre 1938 (l’emanazione delle leggi razziali, dopo il censimento degli ebrei e il manifesto sulla razza)?
A seconda della data che scegliamo, mutano i riferimenti alle responsabilità e alle vittime: solo le responsabilità dei nazisti nello sterminio, o anche quelle degli italiani nelle deportazioni? Solo il ricordo degli ebrei, o anche quello dei rom, dei detenuti politici e militari nei lager? La memoria selettiva è inevitabile, ma è parziale. La scelta di una data anziché un’altra, di un evento piuttosto che un altro, non è mai neutrale; ha una forte valenza politica, perché – come dice Orwell – “Chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato”.
Una legge del 2003 ha integrato la celebrazione del Giorno della Memoria, unificando due prospettive: quella che guarda alla Shoah nella sua unicità e quella che guarda invece alle vittime di tutte le persecuzioni e di tutti i totalitarismi. La legge ha previsto anche l’istituzione di un Museo dell’Ebraismo italiano in Ferrara, cui ci sono affiancate iniziative simili a Roma (con il Museo della Shoah) e a Milano (con il Binario 21 della stazione centrale, da dove partivano i treni della deportazione).
È necessario ricordare le “testimonianze delle vicende che hanno caratterizzato la bimillenaria presenza ebraica in Italia” e “far conoscere la storia, il pensiero e la cultura dell’ebraismo italiano” (così l’articolo 1 della legge). Del resto, il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia è l’occasione per ricordare il contributo fondamentale che l’ebraismo italiano seppe dare alla storia del Paese, in molti campi (culturale, istituzionale, politico, economico e sociale), e al percorso unitario: dalla partecipazione al Risorgimento (fu un ufficiale ebreo piemontese a ordinare di aprire il fuoco a Porta Pia), a quella alla Resistenza (non furono pochi gli ebrei antifascisti a combattere e morire come partigiani).
Ma è necessario anche ricostruire il “percorso della memoria”, dedicato “alle testimonianze delle persecuzioni razziali e alla Shoah in Italia”, nonché ai “temi della pace e della fratellanza tra i popoli e dell’incontro fra culture e religioni diverse”. Il Museo della Shoah è essenziale come momento di incontro tra la memoria e la storia; come strumento di conoscenza, ricerca e approfondimento, per evitare le trappole della memoria. Ad Auschwitz il trascorrere del tempo rischia di incidere sulla realtà fisica del luogo; di scolorire i segni esterni della banalità e della tragicità del male (le baracche, le valigie, le scarpe, gli occhiali, i capelli); quei segni concreti e visibili di sei milioni di vite, di dignità personali, di individualità, di personalità calpestate.
Si capisce perciò chi – come Marek Halter (ebreo francese di origine polacca, testimone oculare e superstite) – temeva che la grande celebrazione dei sessant’anni dalla apertura dal campo di Auschwitz potesse costituire la fine del ricordo, il passaggio obbligato dalla memoria alla storia; che la ormai quasi compiuta scomparsa di tutti i salvati, di tutti i “giusti”, possa cancellare ogni traccia di memoria.
Si può cercare di evitarlo solo quando il ricordo continua a coinvolgere, come un pugno nello stomaco; quando resta la memoria; quando essa si fa radice e identità e perciò si trasmette fra generazioni: non per mantenere vive separazioni, ma per unire.
Occorre che la memoria – partecipazione del cuore, come dice la parola ricordo, ex-corde – non diventi soltanto storia, espressione solo dell’intelletto e della conoscenza; asettica, astratta, non coinvolgente, per quanto necessaria al fine di evitare le aberrazioni dei revisionismi e dei negazionismi, oggi ricorrenti in varie forme.
Fare memoria non è solo un diritto, è un dovere, un atto di giustizia: non perché sia imposta per legge, ma perché il ricordo lo dobbiamo a molti. Prima di tutto, a chi ha sofferto nella Shoah: ai “sommersi”, che possono testimoniare solo più nella nostra memoria; e ai “salvati” che possono ancora aiutarci a costruire quella memoria.
Lo dobbiamo ai “giusti”; ma anche ai tanti fra noi che, sapendo, hanno taciuto o si sono voltati dall’altra parte. Lo dobbiamo a noi stessi; è un fatto essenziale di identità e di consapevolezza che qualche volta ci si deve vergognare della condizione umana. Lo dobbiamo ai nostri figli e nipoti e ai loro figli e nipoti, perché possano, almeno loro, non dover provare più quella vergogna.
La Shoah, la catastrofe, la distruzione, è un unicum irripetibile. Ma le cause e le condizioni in cui e per cui è avvenuta, si ripropongono quotidianamente; anche se con forme diverse, talora più insinuanti e all’apparenza meno pericolose dell’infamia rappresentata dalle leggi razziali (quelle italiane, non solo quelle naziste).
Ecco perché bisogna sempre ricordare. Perché – come scrisse Primo Levi, in Se questo è un uomo (il miglior commento che io conosca all’articolo 3 della Costituzione italiana, secondo cui tutti siamo uguali e abbiamo pari dignità sociale) – “a molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno consapevolmente, che ogni straniero è nemico… Quando questo avviene, allora, al termine della catena sta il lager”; “è avvenuto, quindi può accadere di nuovo: (…) e dappertutto”.
Ecco perché c’è bisogno della casa per costruire e custodire la memoria di tutti e per tutti. Per ricordare – ce ne dimentichiamo troppo facilmente, troppo spesso – che i diritti umani sono universali. Sono indivisibili: esprimono tutti insieme – quelli civili, politici, economici e sociali – la condizione umana. Non basta proclamarli, occorre garantirli a tutti e attuarli concretamente; le Carte solenni di quei diritti sono numerose, ma le loro violazioni quotidiane – nei confronti di molti, di pochi o di singoli – sono molto più numerose.
Per questo, è giusto ricordare il 27 gennaio. Perché, “nel lager, il lavoro rende liberi” (come dice l’infame scritta sul cancello di Auschwitz): ma soltanto di morire; mentre la memoria del lager rende liberi di vivere.

(©L’Osservatore Romano 23-24 gennaio 2012)