Continuiamo a rincorrere risultati «visibili» e posizioni di «potere» anziché il principale insegnamento del Fondatore: la conversione del cuore di ciascuno

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«Ti piace vincere facile?», interrogava una recente pubblicità televisiva. Proseguendo il discorso sull’innegabile ricerca di «valori forti», che si sente sia a livello sociale sia nel mondo cattolico, mi viene in mente come tale esigenza possa costituire la risposta inconscia a uno stato di debolezza.

La Chiesa italiana è oggettivamente debole, infatti; e non tanto per i numeri calanti dei fedeli, oppure per le insufficienze di parte del clero (dalle più alte gerarchie in giù), e nemmeno per la crescente carenza di cultura cattolica – intendo cultura critica, non infarinatura devozionale. La Chiesa italiana è proprio debole di idee e di coraggio nel professarle, e lo si vede dall’affanno con cui ancora rincorre risultati «visibili» e posizioni di «potere», preferendo un’affermarsi di facciata dei suoi princìpi (la famiglia tutelata dalla legge, il gender fuori dalle scuole, i soldi garantiti alle scuole paritarie, eccetera) anziché il principale insegnamento del suo Fondatore: la conversione del cuore di ciascuno, la convinzione delle singole coscienze.

Attenzione: non che si debbano escludere i risvolti sociali e civili della fede, se essa oggettivamente si muove verso il bene comune. Ma c’è differenza tra il convincere che è così e invece il voler vincere comunque sia… E proprio questo appare da certi inconsulti comportamenti visti negli ultimi giorni: invocare il voto segreto (l’importante infatti è che la legge non passi!), minacciare ritorsioni elettorali (#renziciricorderemo), smuovere lobbismi politici di democristiana memoria, condizionare i comportamenti attraverso il principio di autorità. Ai cattolici – a certi cattolici italiani – piace ed è sempre piaciuto «vincere facile», insomma: solo che una volta c’era una cultura cristiana condivisa, almeno formalmente parlando, e passi; adesso non esiste più: e son dolori.

Non si vuol ammettere, anzi proprio non si sopporta di essere «minoranza», pertanto si persiste con i metodi di quando si era (apparentemente) «grande maggioranza». Si punta sui numeri, di piazza o ai seggi – ma non son più quelli di una volta! Si ribadiscono i fondamenti «naturali» o «razionali» della fede – però le filosofie moderne non danno più garanzie su questa strada. Si pone la fiducia negli schemi (educativi, pastorali, etici, liturgici…) ereditati dal passato: se hanno funzionato una volta, lo faranno di nuovo. Non si accetta di essere deboli o addirittura perdenti, ci si aggrappa dunque con le unghie e con le residue energie a un’idea di Chiesa «quantitativa», che ci illuda di essere ancora importanti, di essere ancora noi.

È proprio il contrario: la ricerca di certezze è una confessione implicita di debolezza, anzitutto ideale. Chi non ha il coraggio di affrontare la critica e persino la sconfitta, non è sicuro di se stesso: e per quanti professano fede nell’Onnipotente è un difetto non minore. Si capisce in tal senso la perplessità palpabile che, dietro il solito ossequioso velo clericale, i vertici del cattolicesimo italiano dimostrano alla strategia «senza rete» di Papa Francesco: loro vogliono sicurezze (tangibili, palpabili, possibilmente ratificate dal Parlamento), lui invece rischia, rischia troppo! Senza «vescovi pilota», dove andremo mai a finire?

di Roberto Beretta in vinonuovo.it