Come cambiano gli studi filologici con l’avvento dell’informatica: con l’uso del computer sono sparite le versioni provvisorie delle opere letterarie

Ma perché dovrei studiare filologia? Beh, certo, la domanda è legittima. Quando si legge che il grammatico alessandrino Didimo fu soprannominato Calcentero, ossia “con gli intestini di bronzo”, perché stava seduto in continuazione a lavorare su cataste di libri e poi si pensa che tutto, di lui, è andato perduto e oggi non se ne sa più nulla.
Pure, anche questa scienza riservata e ascetica non solo una storia sfolgorante, ha non solo reso grandi servizi: è anche ricca di valori, apre orizzonti appassionanti di scoperte, di lavoro, di soddisfazioni. Il ricupero di un patrimonio immenso e meraviglioso, a cui rimettere mano per restaurarlo e rischiararlo, operazione apparentemente arida e pignola, si spiega allora nella sua grandiosità, e il merito balena come la ricompensa di un beneficio incommensurabile all’umanità.
Angelo Poliziano, nella prefazione a uno dei primi capolavori della critica filologica, i Miscellanea, proclama di aver atteso all’analisi, ricostruzione e spiegazione dei testi antichi senza concedere nulla odio e stomacho, sempre candido, schietto, mai malevolo né esibizionista; agendo libero examine (formula fatidica), libera veritatis fronte.
Erasmo, associando al proprio il lavoro del nuovo nume tutelare, il tipografo, nell’adagio Herculei labores così proclama e così tanto spiega in poche righe della filologia: “Impresa davvero erculea e degna di uno spirito regale quella di rendere al mondo una cosa tanto divina e quasi del tutto scomparsa, investigare ciò ch’è nascosto, far emergere ciò ch’è sommerso, ridare vita all’estinto, integrare il mancante, rimediare a mende d’ogni sorta”. Nei cinque secoli che seguirono, questo programma fu quasi compiutamente realizzato. Il grande fiume delle letterature classiche è fluito verso la foce depurato, fra argini sicuri, lasciando nelle anse solo le sue propaggini minori. Forse con minor ebbrezza di quei pionieri, ma con progressivi affinamenti della tecnica fino all’età positivistica e alla scuola storica, la filologia ha sistemato il corpo fondamentale delle letterature antiche estendendosi anche alle romanze.
Si può ben dire che quanto più ci si avvicina a noi, tanto più la filologia scopre non già di aver esaurito il suo compito, ma di aver di fronte altri campi e altre nozioni. La parte più vivace e innovativa della filologia del secondo Novecento si riconosce in uno spostamento di asse d’interesse e di attività scientifica, volgendosi non tanto sul e per la forma definitiva del testo, ma risalendo a monte, ripercorrendo attraverso documenti vivi il cammino per cui si è giunti a quella che rappresenta l’ultima volontà a noi nota dell’autore. Di qui anche l’importanza che assumono rispetto alle biblioteche gli archivi, non per nulla in rapida proliferazione e i depositi delle case editrici.
Indicativo di ciò può essere a esempio quanto fatto a tutt’oggi intorno a una casa editrice centrale nella cultura italiana dell’ultimo secolo: Einaudi di Torino. Già il Pensare i libri. La casa editrice Einaudi dagli anni Trenta agli anni Sessanta (1999) di Luisa Mangoni rappresenta una grande ricerca d’archivio. Da allora le ricerche sono cresciute, sempre più capillari.
L’editore stesso pubblica una serie di libretti con carteggi e autografi di autori e funzionari della casa: il carteggio Giulio Einaudi-Eugenio Montale per le Occasioni; Autografi di Montale; le Lettere editoriali di e con Massimo Mila; quelle di Federico Zeri o – impagabili – di Gianni Rodari a don Julio Einaudi, hidalgo editorial. Nel 2009 usciva per EDUCatt Libri e scrittori di via Biancamano. Casi editoriali in 75 anni di Einaudi, che è un grande accumulo di notizie, storie, libri, cavate dalla miniera torinese.
Chi s’immerge in questo materiale capisce l’importanza e coglie immediatamente le possibilità di questo tipo di ricerche filologiche.
Mila e Pavese discutono nel settembre del 1945 i particolari di un risvolto di copertina, e Mila con Paolo Serini nel gennaio del 1946 la sistemazione di un vocabolo nella versione di un libro di Paul Hazard nella collana dei Saggi. A cosa mai non fu appeso il destino di un verso di “Arremba su la strinata proda” in Ossi di seppia, finiti di stampare il 5 settembre 1942? Lettera di Eugenio Montale a Giulio Einaudi 16 febbraio (in apparato all’edizione 1980 dell’O-pera in versi, a cura di G. Contini e R. Bettarini, vol. II, p. 876): “Se le bozze dei perfidi ossi sono ancora lì a portata di mano vorrei pregarla di una correzione. Nel verso finale la parola amarra che avevo trasformato in ammara tornerebbe (se possibile) alla sua grafia originaria di amarra. Il verso dev’essere corretto così: Amarra la tua flotta tra le siepi. P. S. Imprimatur”. E così fu. Anche per le Occasioni Montale continua a precisare, ritoccare fin sulle seconde bozze e oltre fra il settembre e l’ottobre del 1939 offrendo, nello scambio di lettere con il redattore editoriale, lo specchio e gli echi dei suoi minuziosi occhi e orecchi poetici.
Di qui si può salire anche a progetti più grandi. Che cosa di più “genuino” e più cristallino di un Pensiero di Pascal, espresso nella raccolta autografa delle sue Pensées? Eppure ogni riga che leggiamo nel manoscritto, ove quelle pagine sono rimaste depositate, è frutto di ripensamenti e correzioni incontentabili. Il Centre International Blaise Pascal dell’Università di Clermont-Ferrand ha avviato in questi anni il progetto di un’edizione elettronica dell’opera, che mediante gli strumenti più sofisticati della tecnica attuale riesce non solo a leggere esattamente anche nei punti più tormentati, ma pure a stratificarli, riproducendo in modo scalare con diversi colori i successivi interventi dell’autore. Con risultati che, a giudicare dai casi già evidenziati nella rivista del Centre, sono interessantissimi. Il Pensiero 641 dell’edizione Sellier – L’histoire de l’Église doit proprement être appelée l’histoire de la vérité – ci era noto finora solo dalla trascrizione che ne aveva fatto la sorella di Pascal, Gilberte. Ora, rinforzando alcune tracce di scrittura appena appena percepibili nella pagina precedente, si ricupera e si autentifica l’inizio con l’originale dell’autore. E così via.
Questa nuova “filologia d’autore” è stata da noi bandita in testi teorici e spiegata in applicazioni pratiche da maestri quali Gianfranco Contini e Dante Isella, al quale ultimo si deve anche il conio della formula. Agée di poco più di mezzo secolo dopo alcuni albori poco più remoti e qualche applicazione sporadica anche in passati più lontani nell’ambito della letteratura tre-cinque e ottocentesca, in particolare sulle Rime del Petrarca, sull’Orlando furioso e sui Canti del Leopardi, essa ha già trovato una comoda e limpida ricostruzione storica e teoretica in un recente manualetto di Paola Italia e Giulia Raboni, Cos’è la filologia d’autore (2010). La precisazione chiarificatrice in capo d’opera è questa: “Essa si distingue dalla filologia della copia perché prende in esame le varianti introdotte dall’autore stesso sul manoscritto o su una stampa; varianti che testimoniano dunque una sua diversa volontà. L’oggetto di studio della filologia d’autore, quindi, è costituito da un lato dallo studio dell’elaborazione di un testo di cui ci è giunto l’autografo e che reca in sé tracce di correzioni e revisioni d’autore, dall’altro dall’esame delle diverse redazioni, manoscritte o a stampa, di un’opera”.
In fondo, la filologia classica è storia del presente e del dopo testo, quella della filologia d’autore dell’ante.
Chiaramente questa impostazione ha spostato anche cronologicamente l’attenzione e il lavoro filologico, fin qui prevalentemente appuntata su testi antichi; ora invece, come s’è visto anche dagli esempi addotti sopra, questi vengono inevitabilmente accantonati, per lasciare lo spazio ai moderni e soprattutto ai contemporanei, di cui esistono o abbondano i necessari testimoni. Mentre dell’Eneide e della Divina Commedia non abbiamo il testo dato e tanto meno conosciamo l’ultima volontà dell’autore, dei Promessi Sposi e delle Poesie di Vittorio Sereni sì, e inoltre gli approcci, e il seguito.
Anche nei contenuti e nell’aspetto l’edizione della filologia d’autore è evidentemente innovativa rispetto all’edizione critica della filologia costitutiva. L’apparato non conterrà le varianti della tradizione bensì, apparato “genetico”, gli interventi che si sono succeduti sul testo manoscritto o a stampa dalla sua prima stesura a quella (giudicata) definitiva. Ogni volta il testo è testo, e nessuna volta lo è mai. Se si volesse cogliere in questa nuova filologia sintomi o a sua volta genesi, si potrà proporre una concezione moderna anche del testo letterario come qualcosa di fluido e provvisorio, non necessario e perfetto; dello scrittore (ma si può dire anche dell’artista e della sua opera che passa dal disegno alla sinopia all’affresco) incerto e insoddisfatto; addirittura della labilità e provvisorietà di tutto. C’è già verso la fine della Nota dei curatori alla citata edizione montaliana questa considerazione: “Non è da sottovalutare l’aspetto paradossale di conferire in qualche modo la perennità o perlomeno la durata bronzea della filologia alla materia discontinua di questi puncta temporis: destino moderno se altro mai”.
D’altra parte leggiamo ancora, nelle Carte mescolate iselliane, questo presupposto, che ci riporta anche a un nostro punto di partenza: la vera filologia, la cui operazione principe è la ricostruzione critica del testo, “non è mera tecnica strumentale, ma operazione eminentemente spirituale”. Essa ci pone di fronte a un’immagine dinamica del suo oggetto, che però non è un puro oggetto; e come la creazione da parte del suo autore, così la ricostruzione del suo studioso tendono dialetticamente alla costruzione o alla ricostruzione di un “valore”. Il lavoro e il risultato, per questo contatto diretto alle fonti e talvolta all’autore stesso, sono quanto di più umano e umanizzante si possa immaginare; si entra nel vivo della creazione artistica e la si accompagna, s’impara anche l’arte quando se ne ha il gusto e l’estro, oltre che descriverla. Ancora di Isella, nell’Introduzione al Meridiano delle Poesie di Sereni (1995), sono queste righe: “Gli apparati filologici risultano essere la migliore mappa descrittiva della poesia di Sereni. Ne mettono in risalto la perfetta coerenza tra il suo modo di intenderla e di farla; ne testimoniano fedelmente l’autenticità, la moralità che l’innerva”.
È ancora possibile esercitare a lungo, presentemente, anche questa “seconda” filologia? Indebolita la prima dal drastico restringimento dell’istruzione classica, anche la seconda vive insidiata dal rapido impiego dei nuovi mezzi di scrittura e di lavoro. Italia e Raboni ricordano le opportunità che per il loro lavoro offrono le edizioni on line e la trasmissibilità delle immagini, i collegamenti e fin i banali marcatori cromatici utilizzabili; sottolineano la grande quantità d’informazioni attingibili in rete, archiviabili e combinabili, e la costituzione di équipe virtuali in luoghi anche lontanissimi fra loro, o la maggior facilità di vedere e stabilire quei “sistemi di equilibrio dinamico” cari a Contini, di cui è costituita e su cui si regge un’opera poetica. Tutti grandi sussidi al lavoro filologico, che è fatto di recensioni, di catalogazioni, di raffronti e collegamenti del disordinato e del disperso, di salvataggi e di eliminazioni, di valutazioni e di pulizie. Però, e viceversa, i computer inghiottono e cassano indifferenti, a un semplice tocco dello scrittore soddisfatto e sollevato per aver raggiunto il suo ideale, ogni approssimazione a quella formula, ogni ispirazione balenata e poi scartata. Lo scrittore procede e giunge ora al traguardo senza lasciarsi indietro nulla. Le tracce, significative, dell’evoluzione e della creazione, la sua dinamica, precipitano nel “cestino” e lì si perdono definitivamente, lasciando a bocca asciutta lo studioso o il semplice curioso (perché la nuova filologia è anche un po’ curiosa, e molto appagata). Specchio ancora una volta di una civiltà provvisoria e obliosa.

di Carlo Crema

(©L’Osservatore Romano 22 gennaio 2012)