Come Bernanos: il giallo illumina il male

​Un romanzo di simmetrie misteriose, di corrispondenze, di rimandi, di curve ellittiche intrecciate, Le notti di Vladivostok di Christian Garcin. 55 anni, viaggiatore, scrittore di fine formazione letteraria, già Prix Roger Caillois, Jorge Luis Borges come nume tutelare, «senza la cui lettura – tiene a specificare – mai avrei cominciato a scrivere». Tre personaggi per una caccia all’uomo guidano il plot del suo nuovo libro (O barra O, pp. 250, euro 16). La trama è complessa e perfetta, si riassume solo per cenni: Thomas Rawicz, sgangherato agente letterario francese, insieme ai cinesi  Zuo Luo e Wanglin (rispettivamente un investigatore privato e uno scrittore, di aura donchisciottesca) si mettono insieme, dopo il loro incontro rocambolesco, sulle tracce di un pericoloso trafficante affiliato alla mafia russa e a una triade cinese.È un giallo (o un romanzo di genere) solo secondo convenzione, imperscrutabili ramificazioni conducono invece il lettore dall’isola Zhenbao, teatro della guerra sino-sovietica del 1969, fino all’underground newyorchese. Sulla scia dei personaggi anche il lettore è come disarcionato dalla complessità violenta del mondo. Il sogno, l’inazione, il viaggio, sono una sirena costante per i protagonisti. Una resa a tutto ciò che è malvagio non è prevista.

Tanta passione per il controllo dell’azione narrativa. Eppure a leggerla, Garcin, sembra che la sua pagina sia sotto il segno dell’immediatezza, per dirla con Andreij Siniavskij.
«Diciamo che provo a muovermi lungo una sottile lama di rasoio, all’incrocio tra le due dimensioni: nei miei libri, a muovere la narrazione è come se ci fossero illusioni ottiche o il caso. Ma la mia preoccupazione per la coerenza globale, per l’architettura, è assoluta. Ci lavoro molto. Anche la frase di Siniavskij però mi corrisponde: prende dentro tutto il senso di imprevedibilità della  scrittura, che senz’altro sperimento. Idealmente mi rimanda all’idea taoista del wu-wei».

Ovvero?
«Il non-agire. Pratica che garantisce uno stato di “porosità” grazie al quale, piuttosto che voler forzare il muro del reale, si lascia  che esso ci attraversi al fine di controllarlo meglio. Resta che, quando scrivo, quello che prende forma su carta mi sopravanza sempre un po’: si mettono in piedi, quasi da soli, sistemi o scritture di cui non avevo piena consapevolezza al momento preciso della scrittura. Sono architetture che si finalizzano dopo ed è lì che mi arriva il desiderio di costruzione, di mettere regole».

In Italia gli scrittori come lei li definiamo «letteratissimi». Il libro è attraversato, sotto traccia, da citazioni nascoste, rimandi. Ho trovato molto Bernanos, o sbaglio?
«In effetti sì, l’incipit di uno dei capitoli iniziali è molto simile a quello di Sotto il sole di Satana. Che è un gran libro, da cui Maurice Pilat ha tratto un grande film».

Cosa le piace di Bernanos?
«Sous le soleil de Satan è un romanzo crepuscolare e misterioso, che si prende in carico  la dimensione dell’invisibile e in cui alcune scene sono di assoluta bellezza. Precisamente trovo formidabile quella in cui l’abbé Donissan incontra Satana, travestito da venditore di cavalli, all’uscita da un cammino labirintico, in piena campagna. Nell’ora incerta tra il cane e il lupo, quando non è più giorno e ancora non è notte, la stessa ora dell’incipit del romanzo: tempo propizio alle apparizioni, ai misteri, alle illusioni».

A proposito, tornando al libro, mi hanno colpito le sue pagine sulla «materia oscura» – in analogia, si direbbe, ci sono figure con il dono dello «shining» (la Siberia è uno dei poli sciamanici), ad aiutare la ricerca di Zuo Luo, e Wanglin e Rawicz. Dimensioni che restano ignote all’applicatività che oggi la scienza insegue.
«A me sembra molto semplicemente che, andando veramente ai ferri corti con alcuni misteri insondabili dell’astrofisica e della meccanica quantistica, si sia costretti a concludere che la realtà dell’universo e tutto ciò che la costituisce sfuggano spesso alla spiegazione razionale o al dominio rigoroso dei cinque sensi».

C’è un fisico in Francia, Etienne Klein, che ha studiato tra l’altro gli approdi talora paralleli del linguaggio matematico applicato alla conoscenza della natura e dell’intuizione, anche di natura sciamanica, degli Indios.
«Conosco Klein, mi è capitato di partecipare a un dibattito con lui. E, in effetti, mi è sembrato uno di quegli scienziati al tempo stesso rigorosi ma aperti a un approccio più intuitivo della realtà. Ad ogni modo non è per forza necessario chiamare in causa gli sciamani. Sono molti gli indizi, le angolazioni di visuale da cui risulta chiaro che esiste un sapere – o forse lo si potrebbe definire anche un non sapere – millenario, invisibile, non razionale, che certo governa anche il nostro mondo».

Le sequenze finali del suo libro sciolgono mirabilmente la tensione narrativa. C’è sempre chi vince e chi perde, ma sono inarresi i suoi eroi improbabili?
«Come dice Wanglin, lo scrittore incapace di smettere di scrivere libri che nessuno legge, nonostante il suo desiderio di impegnarsi a cercare di cambiare il mondo, il ruolo e la potenza dell’immaginario non sono da dimostrare nella storia delle idee e degli uomini. È in questo campo d’azione che anche io posso battermi!».

Jacopo Guerriero – avvenire.it