Cittadinanza agli immigrati l’alfabeto che unisce

Nella tradizione europea, forgiata dalle ideologie nazionalistiche e dalla retorica patriottica, l’appartenenza a una comunità statuale e l’accesso ai diritti di cittadinanza si basano sulla presunzione di una comune discendenza, fino a evocare legami di fratellanza (come nell’incipit dell’inno d’Italia) e consanguineità (si parla, non a caso, di jus sanguinis, quale criterio alla base di molti regimi di cittadinanza). Si può dunque facilmente intuire perché l’immigrazione rappresenta un fattore di disturbo, che allontana sempre più le nostre società dal mito dell’omogeneità – linguistica, culturale, etnica e religiosa – sul quale si è storicamente fondata l’identità nazionale. La ridefinizione dei confini della nazione, attraverso l’inclusione – totale o parziale – di nuovi membri nella comunità dei cittadini, è però un passaggio inevitabile per le società d’immigrazione che vogliano continuare a chiamarsi democrazie. È quanto sta avvenendo in Italia, divenuta, nell’ultimo quarto di secolo, uno dei più importanti poli attrattivi dello scenario migratorio internazionale, ‘patria’ d’elezione di milioni di migranti ormai insediati in maniera stabile e con un forte potenziale di crescita demografica (ogni 5 bambini che nascono in Italia, uno ha almeno un genitore straniero) in grado di mutare irreversibilmente i caratteri ereditari del popolo italiano.
Mentre le forze politiche dibattevano animatamente sulle ipotesi di riforma di una legge sulla cittadinanza ritenuta dai più anacronistica, centinaia di migliaia di immigrati stranieri hanno raggiunto l’anzianità di presenza necessaria per richiedere la naturalizzazione. Nel corso del 2014, le acquisizioni di cittadinanza italiana hanno raggiunto un numero che è circa dieci volte tanto quello che si registrava all’inizio del millennio. E soltanto nel biennio 2013-14 si sono avute più di 230mila nuove acquisizioni (trend confermato dai dati provvisori sul 2015 diffusi dall’Istat): una cifra superiore a quella degli sbarchi sui quali si è invece concentrata l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica. Secondo la stima elaborata dall’Ismu, nel prossimo ventennio potremmo avere quasi cinque milioni di ‘nuovi italiani’: in un paese decisamente ‘vecchio’ come l’Italia, è facile intuire quale potrà essere il loro impatto anche, per esempio, in termini elettorali. A sua volta, se fosse approvato, il progetto di legge in discussione in parlamento trasformerebbe in italiani fino a 700mila bambini e ragazzi nati in Italia o arrivati nei primi anni di vita.

La piena inclusione nella comunità degli italiani non è peraltro l’unica modalità attraverso la quale è possibile ampliare i ‘confini’ della cittadinanza, un obiettivo che si sta realizzando, nelle democrazie europee, anche attraverso l’arricchimento del paniere dei diritti fruibili dai non cittadini. In Italia, oltre la metà degli stranieri extra-Ue residenti possiedono uno status di lungo-soggiornante, che garantisce una quasi equiparazione coi cittadini nel godimento dei diritti civili e sociali, e soprattutto un diritto di soggiorno a tempo indeterminato. Inoltre, circa un milione e mezzo sono gli stranieri soggiornanti che godono dello status privilegiato di ‘cittadino europeo’, non in virtù di qualche merito personale o di qualche successo nell’integrazione, ma in nome di un progetto politico che ha progressivamente ampliato le frontiere dell’Unione europea fino a includervi alcuni dei paesi a più forte pressione emigratoria. Infine, tutti gli stranieri, indipendentemente dal loro status giuridico, beneficiano di alcuni diritti e protezioni – dal diritto/dovere all’istruzione nel caso dei minori a quello alle cure sanitarie –, loro riconosciuti in ragione del principio della dignità della persona, che faticosamente apre una breccia nelle legislazioni nazionali, sollecitate proprio dall’immigrazione a fare i conti coi limiti delle tradizionali teorie e pratiche della giustizia e della redistribuzione, formulate a partire dalla ‘finzione’ di società statual-nazionali dai confini chiusi.

L’immigrazione, però, non interpella le società nazionali unicamente nella loro capacità d’inclusione nel sistema dei diritti di cittadinanza. Essa le pone anche di fronte a sfide inedite, generate dal confronto con la diversità: diversità che hanno a che vedere con la cultura, la lingua, la religione e l’appartenenza etnica; ma anche col fatto stesso di essere migrante, appartenente contestualmente a due mondi diversi, a due diversi universi identitari, a due diverse ‘patrie’. Anche l’Italia si trova ormai di frequente investita da questioni e richieste ‘identitarie’, non sempre facilmente riconducibili alla logica dei diritti individuali universali, ma che a volte si spingono – così com’è avvenuto, con esiti diversi, in altri paesi europei – a rivendicare una forma di ‘cittadinanza multiculturale’, ossia il riconoscimento di diritti e trattamenti differenziati; minando così uno dei principi cardine delle democrazie europee – ‘la legge è uguale per tutti’ – e indugiando a una logica comunitarista, che attribuisce ai gruppi minoritari la facoltà di decidere ciò che è bene per i propri membri. Ed anche l’Italia vede via via crescere il numero di stranieri che, naturalizzandosi, diventano anche italiani, mantenendo la loro cittadinanza d’origine e ritrovandosi in una posizione addirittura sovraordinata rispetto a quella dei residenti storici (in quanto titolari di un doppio passaporto e, a volte, perfino dei diritti politici in due diversi paesi, come del resto avviene per milioni di ‘italiani’ residenti all’estero).

Se per un verso la doppia cittadinanza sembrerebbe esasperare il significato strumentale della naturalizzazione (non è raro, del resto, che la cittadinanza italiana, faticosamente conquistata, sia poi utilizzata dagli immigrati come lasciapassare per migrare in un altro paese europeo), per l’altro riflette la realtà di un mondo globalizzato, sempre più distante dalla visione nazionalistica di società protette dai recinti statuali e basate su una fedeltà esclusiva dei cittadini verso uno e un solo Stato. L’idea di cittadinanza radicata nel sentire comune la rappresenta come un attributo ascritto o addirittura innato, o al più come un privilegio concesso dai ‘proprietari dello Stato’ a chi dimostri di meritarlo. Ma nel suo significato più autentico la cittadinanza non è solo accordata per via politica e istituzionale, ma prende corpo nell’interazione quotidiana, attraverso le pratiche partecipative che vedono soggetti diversi concorrere alla costruzione del bene comune. E, ancora, oltre che un viatico per l’accesso a una serie di diritti e di opportunità, la cittadinanza è un istituto che custodisce valori, principi e visioni del mondo, riaffermando il dovere di rispettarli e trasmetterli alle nuove generazioni. Nel riflettere sul rapporto tra immigrazione e cittadinanza, occorrerebbe tenere conto di tutte queste dimensioni, nobilitando un dibattito oggi appiattito sugli aspetti tecnici e procedurali (del tipo ‘quanti anni sono necessari per diventare italiani’) e prigioniero di opposte strumentalizzazioni, e prestando molta più attenzione al processo che ‘trasforma’ un immigrato in cittadino.

Si tratta, a ben guardare, di un’occasione formidabile – o forse addirittura profetica – per rivitalizzare le forme di partecipazione civica e politica e la consapevolezza del significato della cittadinanza democratica, nel confronto con chi s’è lasciato alle spalle regimi assolutistici e società illiberali. E per interrogarci sui contenuti dell’identità collettiva, ovvero sui valori che regolano la convivenza, sui criteri con cui disciplinare l’ammissibilità di comportamenti non conformisti, e sui principi cui deve ispirarsi lo stesso dialogo con l’alterità e sugli elementi non derogabili, che delimitano il quadro entro il quale può esprimersi lo stesso contributo dei migranti e dei gruppi minoritari alla costruzione di una nuova idea di società e di cittadinanza.

Avvenire