Intervista. Alex Cittadella: «Nel cielo delle Alpi la verità dell’uomo»

A colloquio con lo storico e scrittore friulano: «Chi ha vissuto queste valli ne ha sempre tratto cultura e insegnamento. Oggi lo sfruttamento e la crisi ambientale ci dicono che non è più così»

Lo scrittore Alex Cittadella

Lo scrittore Alex Cittadella

«Un mondo affascinante e fantastico», quello delle Alpi, osservato con l’occhio indagatore dello storico ma anche con lo sguardo incantato di un bambino: sin dall’infanzia Alex Cittadella, 42 anni, docente nelle scuole superiori e dottore di ricerca in Storia moderna al Dipartimento di studi umanistici e del patrimonio all’Università di Udine, ha iniziato ad amare le montagne grazie alla madre friulana e al papà bellunese. «Le Alpi in particolare, e la natura in generale, sono sempre state una passione nutrita dal legame affettivo, ma anche estetico: faccio camminate in tutte le stagioni, anche se prediligo quelle meno turistiche. E poi sono lo sfondo che vedo ogni giorno dalle finestre, un punto di riferimento costante», racconta Cittadella nella sua casa a Pasian di Prato, in provincia di Udine. Da pochi giorni è in libreria con Il cielo delle Alpi. Da Ötzi a Reinhold Messner, edito da Laterza in collaborazione con il Cai (Club alpino italiano), che definisce «un’intensa camminata lungo il tempo e lo spazio per immergersi nel clima alpino attraverso lo sguardo di alcuni affascinanti personaggi storici». Infatti l’autore racconta come protagonisti del passato e del presente abbiano convissuto con le trasformazioni dell’arco montuoso. E lo fa scegliendo di assumere in alcuni capitoli la prima persona, tanto che le tappe percorse so- migliano a scalate interiori colme di empatia.

Perché questa scelta stilistica?

Una sfida d’immedesimazione che può piacere o no, insolita anche per l’editore, con l’obiettivo di avvicinare questi personaggi ai lettori, di sentirli più contemporanei, facendo capire il loro modo di costruire e di approcciarsi alla natura, che si ricostruisce dai reperti ritrovati. Quando ho cominciato a scrivere, mi è venuto di raccontare dall’interno Ötzi (vissuto nel Neolitico oltre 5.300 anni fa e ritrovato mummificato nel ’91 nella Val Senales, ndr), ma anche il condottiero cartaginese Annibale che valicò le Alpi nel 218 a.C. e il popolo dei Walser che ancora vive a 2 mila metri sul Monte Rosa. Entrando nelle loro epoche, volevo esprimere la soggettività del loro vissuto nel percepire la natura esterna, il loro rapporto intimo e più genuino con l’ambiente circostante, nella loro veste di testimoni diretti di un mondo prezioso, enigmatico e affascinante. Sotto quel cielo delle Alpi che, per chiunque percorra la nostra più elevata catena montuosa in auto, in bicicletta o a piedi, lungo il fondovalle, sui costoni o sulle cime, appare come una finestra sull’infinito, uno sguardo sull’eternità.

Ha scelto di indagare anche le Alpi di scrittori come Mario Rigoni Stern e Pierluigi Cappello, di esploratori come Walter Bonatti e Reinhold Messner, di artisti come Leonardo da Vinci.

Le Alpi sono al centro della riflessione pittorica di Leonardo: con lui si apre un percorso nuovo di attenzione e osservazione del clima alpino dal punto di vista naturalistico e artistico. Gli faranno da successori de Saussure con il suo approccio radicalmente scientifico e William Turner, che si innamorerà così profondamente dei paesaggi e del clima da trascorrere diversi soggiorni di studio sulle Alpi, producendo centinaia di disegni, acquerelli e opere artistiche in un periodo segnato dalle imprese di Napoleone Bonaparte. Giovanni Segantini, con la sua resa della luce e dei colori dell’Engadina e dei Grigioni, è autore di alcuni fra i dipinti di alta montagna più innovativi e rilevanti della storia dell’arte. Fino all’amore di Rigoni Stern per l’Altipiano di Asiago e ai versi di Pierluigi Cappello, capaci di esprimere l’interiorità più profonda del cielo sopra le Alpi Carniche. Gli alpinisti Bonatti e Messner hanno levato un grido intenso e accorato in difesa dell’ambiente primigenio della maestosa catena, mantenendo sempre un atteggiamento di assoluto rispetto nei suoi confronti.

Di recente la tragedia della Marmolada ci ha messo davanti agli effetti drammatici del riscaldamento globale: questa presa di coscienza c’è stata anche in passato per altri disastri ambientali? Pecchiamo di scarsa lungimiranza?

Gli ultimi 150 anni hanno determinato una svolta epocale nella storia climatica della Terra: l’azione dell’uomo sta determinando il più repentino e profondo mutamento climatico che il nostro pianeta abbia conosciuto da centinaia di migliaia di anni. Rispetto ai cambiamenti precedenti, ora il ruolo dell’uomo è assolutamente accertato e determinante. In passato, invece, le persone guardavano alle vette con una reverenza quasi sacrale, avevano un rapporto rispettoso e diretto con l’ambiente anche quando i ghiacciai avanzavano distruggendo pascoli e paesi: si sentivano parte di quell’ambiente e capivano che se lo avessero utilizzato male avrebbero avuto delle conseguenze negative. Sapevano di dover mantenere alti pascoli e boschi in determinate condizioni perché le generazioni successive potessero utilizzarli. Nell’epoca contemporanea concretamente si fa poco, nonostante i dati siano devastanti, come i climatologi ci ricordano da 40-50 anni. Eppure sfruttiamo il territorio per un profitto immediato, senza ragionare a livello comunitario. Spero molto che a partire dalle scuole si incida sulle nuove generazioni, più sensibili nei confronti dell’ambiente.

Avvenire

Libro Narrativa Italiana: La costanza è un’eccezione di Alessia Gazzola

Descrizione
Dalla creatrice dell’Allieva una nuova, travolgente avventura per Costanza Macallè e un mistero da risolvere risalente alla Venezia di fine Seicento.

Facciamo il punto. Costanza, dopo la laurea in medicina, è stata costretta a lasciare la sua amata e luminosa Sicilia per trasferirsi nel freddo e malinconico Nord. A tenere in caldo i cuori, però, ci pensa Marco, incantevole padre della sua incantevole Flora che Costy, non senza qualche incertezza, ha deciso di portare nella vita della figlia. Dopo varie tribolazioni, Marco ha praticamente lasciato la storica (e decisamente perfetta) fidanzata all’altare. Costanza (seppur decisamente imperfetta) credeva che l’avesse fatto per lei, ma non ne è più così sicura considerato che Marco prende tempo e si comporta in modo piuttosto ambiguo. Come sempre, però, nella vita di Costanza non c’è spazio per la riflessione: lei è una madre lavoratrice e precaria che al momento si sta autoconvincendo di aver compiuto la scelta giusta decidendo di lasciare l’Istituto di Paleopatologia di Verona per un impiego da anatomopatologa a Venezia. Come se la situazione non fosse abbastanza complicata, gli ex colleghi la richiamano per un incarico dal lauto compenso: l’ultima discendente di un’antica famiglia veneziana, gli Almazàn, desidera scoperchiare le tombe dei suoi antenati per scoprire cosa c’è di vero nelle dicerie calunniose che da secoli ammantano di mistero il casato. Costanza non vorrebbe accettare, ma questa storia a tinte fosche solletica la sua curiosità… e poi scopre che nell’operazione è coinvolto anche Marco. Che il cantiere possa rappresentare un’occasione d’oro per trovare un equilibrio vita-lavoro? O, per meglio dire: che il cantiere possa rappresentare un’occasione d’oro per cercare di capire cosa c’è davvero tra lei e Marco? Con coraggio, determinazione e tanta, tanta costanza, questa eroina dai capelli rossi affronterà nuove sfide, svelerà antiche trame mentre proverà a comprendere il suo cuore.

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Muratore: «È il tempo di Rosmini»

Antonio Rosmini – Wikipedia

Il ventiduesimo corso dei Simposi rosminiani di Stresa, che si svolge dal 23 al 26 agosto (Palazzo dei congressi, piazzale Europa 3), dal titolo “Antonio Rosmini e le ontologie contemporanee”, sarà l’ultimo che vedrà don Umberto Muratore in veste di direttore del Centro internazionale di studi rosminiani. Infatti, a partire dal primo settembre, il testimone passerà al nuovo direttore del centro, il trentino don Eduino Menestrina. Pertanto ci siamo recati a Villa Ducale, sede del Centro studi stresiano, che don Umberto ha diretto per 37 anni, per parlare con lui dell’eredità che lascia al suo successore. «Quando presi il governo di questo centro intellettuale – spiega – c’erano in corso tanti progetti iniziati, da iniziare e portare a termine: l’edizione critica di quasi tutte le opere di Rosmini (una settantina di volumi), la preparazione del secondo centenario della nascita di Rosmini, la sua ufficiale riabilitazione filosofica e teologica all’interno della Chiesa e l’iter di beatificazione. Più la restituzione presso il mondo della cultura della sua identità di pensatore di rilievo e la conseguente rimozione di tutte le maschere che erano state costruite sul suo vero volto. Mi pare che si sia fatto un fruttuoso cammino in queste direzioni». Il titolo di ‘Simposio’ s’ispira al dialogo filosofico platonico e Rosmini preferiva Platone ad Aristotele. «Negli ultimi anni Rosmini si andò convincendo che la sua produzione intellettuale era troppo avanti rispetto ai suoi tempi. Doveva subire contrasti, attacchi, sospetti di eterodossia, insomma una specie di passione e sepoltura intellettuale. Tuttavia andò pubblicando le sue opere, convinto che avrebbe trovato un gruppetto di amici della verità disposto a tenere vivo il suo pensiero». Quel manipolo di amici impedì «che l’oblio calasse su di lui durante la discesa agli inferi del suo pensiero. Il poeta Clemente Rebora, negli anni Cinquanta scriveva che a suo parere lo Spirito Santo aveva riservato di amministrare l’eredità intellettuale e il genere di santità di Rosmini, quando i tempi fossero pronti a riceverlo e a beneficiarne. A mio parere i tempi sono questi nostri». In cauda chiediamo a Muratore un ritratto sintetico di Rosmini. «Direi che la sua carta d’identità integrale è quella della carità universale, una specie di istinto amoroso che desidera abbracciare tutto l’essere nelle sue dimensioni: larghezza, lunghezza, altezza e profondità. Questa carità si presenta con tre facce, ciascuna delle quali a suo modo abbraccia tutto l’essere e sono le forme della carità: temporale (cura del corpo), intellettuale (coltivazione della ragione), spirituale (coltivazione dei beni eterni). Se la carità intellettuale in questo quadro splende maggiormente, è perché Rosmini si accorge che i tempi andavano cambiando, la gente cominciava a ragionare con la propria testa e a rifiutare, in nome della ragione, la religione. Bisognava dunque compiere l’immensa opera di presentare la religione come amica della ragione e di esporre le verità teologiche privilegiando come metodo il principio di persuasione sul principio di autorità». All’evento stresiano, organizzato in collaborazione con la Conferenza episcopale italiana e la Lateranense, oltre a Muratore, prenderanno parte Vincenzo Buonomo, Maurizio Ferraris, Giuseppe Lorizio, Giulio Maspero, Markus Krienke, Angela Ales Bello, Paolo Valore, Marco Damonte, Leonardo Messinese e Samuele Francesco Tadini.

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L’INEDITO La ragionevole speranza di Pasolini

Nel 1965 alla Pro Civitate Christiana in un convegno l’intellettuale contestava gli assunti irrazionali e moralistici degli interventi «Serve una cultura comune»

I o vorrei fare prima un’osservazione preliminare se vuole chiamare terminologica. Fare poi due o tre osservazioni magari un po’ polemiche su quello che ho sentito; non ho sentito tutti gli interventi e alla fine fare una dichiarazione di quella che secondo me è la speranza anche se in modo molto schematico. L’osservazione terminologica è questa. Mi pare che si usi la parola speranza in un modo un po’ plurivalente non voglio dire ambiguo, perché l’ambiguità suppone due tipi di speranze. E invece qui quando usiamo la parola speranza contemporaneamente si significa una speranza particolare che è quella di ognuno di noi. Per esempio un cattolico usa la speranza nell’accezione cattolica del termine, ma contemporaneamente si ha l’occhio presente al significato che questa parola può avere per un marxista e per un esistenzialista oppure speranza come pura vitalità e così via. Quindi secondo me sarà bene se si vuole arrivare a qualche conclusione precisa e concreta di questo nostro incontro di studi [?] usare una certa precisazione terminologica nell’uso proprio di questa parola che è al centro della nostra discussione. Cioè toglierla dalla plurivalenza e da una certa ambiguità perché intellettualmente è un pochino sì, in questo caso ambigua.

Le osservazioni che devo fare sono in parte su quello che ha detto Bonaventura Tecchi e mi dispiace che non sia qui, purtroppo a contraddirmi e in parte su quello che ha detto ora Padre Haering. Il nocciolo dell’intervento di Bonaventura Tecchi è la definizione di un certo irrazionalismo insito non soltanto nel momento trascendente dell’uomo cioè nella concezione formalmente religiosa, ma un irrazionalismo insito in tutti i momenti della sua vita, nella sua psicologia, nei suoi rapporti quotidiani con gli altri. E questo irrazionalismo Bonaventura Tecchi lo ha dedotto da una serie di considerazioni cioè nella presenza, secondo me, dedotta ontologicamente senza dimostrazione da una certa ingiustizia ineliminabile nella condizione umana, che probabilmente da parte dei cattolici può essere presa per buona in quanto che probabilmente un cattolico può identificare questa ontologica ingiustizia di cui parla Tecchi con la condizione del peccato originale. Credo almeno. Cioè questa condizione, questa specie di condanna del dolore è dovuta al peccato originale. Per un marxista almeno questo qui è un concetto più difficile da digerire, anche se in tanti punti molto probabilmente un marxista in tanti punti può essere d’accordo. Tecchi ha fatto due esempi. Ha fatto l’esempio delle due sorelle, una specie di romanzo in nuce molto interessante. Due sorelle perfettamente uguali, ma una con un destino l’altra con un altro. Una ha un destino d’angoscia e di dolore una un destino lieto ecc. ecc. Ma questa è una ontologia perché se noi portiamo la nostra ragione, cioè la nostra capacità di comprensione su queste due sorelle e l’analizziamo comprendiamo la ragione per cui i loro destini sono diversi. Cioè se noi analizziamo il destino di una delle due sorelle, noi vediamo che questo destino lo ha voluto lei. Cioè voglio dire che il nostro destino non è che la proiezione esterna del nostro carattere della nostra psicologia. Allora è chiaro che il destino di una delle due consciamente e inconsciamente in qualche modo se lo è scelto, è la proiezione di se stessa. E allora questa ingiustizia si spiega e nel momento stesso in cui dalla nostra ragione è spiegata non ha più questo significato ontologico, apocalittico che le dava Tecchi. L’altro esempio che faceva Tecchi è quello delle malattie. Ma ho sentito prima l’intervento di un medico che parlava della strettissima correlazione tra il nostro carattere e il nostro spirito diciamo così e il nostro corpo. Verrà probabilmente il momento in cui si potrà dire almeno teoricamente e in qualche modo quindi razionalmente come ogni malattia in fondo è sia voluta da noi. Freud dice già che probabilmente moltissime ma-lattie sono un atto inconscio della nostra volontà. Noi vogliamo averle, ce le creiamo da noi stessi. Quindi anche in questo senso qui credo che predicare come dato assoluto ineliminabile categorico dell’uomo questa fatale ingiustizia mi sembra che è sia per lo meno contestabile. Ma ad ogni modo su queste idee si potrebbe ancora meglio discutere.

Voi immaginate di discutere infinitamente probabilmente finirei con l’aver torto io. Il punto con cui non sono d’accordo con Bonaventura Tecchi è nella conclusione che lui ne trae, cioè che questa ingiustizia non possa essere che produttrice di una ideologia irrazionalistica. Ora si può seriamente ammettere l’esistenza di una irrazionalità, ma questa irrazionalità deve essere capita compresa e quindi dominata dalla ragione. E la deduzione finale di Tecchi mi sembra molto pericolosa culturalmente se detta da un romanziere, se detta da un uomo di cultura, da un intellettuale perché predicare una ideologia irrazionalistica è commettere uno di quegli errori che per tornare a un discorso purtroppo molte volte fatto qui, è uno di quegli errori culturali che hanno prodotto Hitler. Cioè l’ideologia hitleriana, il razzismo hitleriano e tutto il suo tipo di cultura mostruosa e aberrante è tutto sommato fondato su elementi peggiori scadenti, negativi fin che volete dell’irrazionalismo decadentistico e quindi mi sembra pericoloso predicare ideologicamente la preminenza dell’irrazionalismo. Con ciò non voglio assolutamente dire che non ci siano in noi degli elementi irrazionali, questo l’ho sempre detto. Dico soltanto che non devono mai essere ideologizzati, cioè l’irrazionalismo deve essere solamente un oggetto, la materia della nostra ragione.

E ora vengo al secondo momento del mio intervento cioè un’osservazione sul primo discorso di Padre Haering. La cosa che vorrei notare è linguistica. Mentre ascoltavo la relazione di P. Haering ho notato che spesse volte egli usava il verbo dovere. In principio non lo percepivo poi in po’ alla volta ne ho preso coscienza. Dopo la terza, la quarta, la quinta la sesta volta. Ho cominciato a farci caso e ho notato che la parola dovere è intervenuta spessissime volte nel suo discorso. Credo di averla contata perlomeno dalle quindici alle venti volte. Lo scrittore deve, noi dobbiamo. Ora io non voglio intervenire da moralista su un discorso che diventerebbe fondamentalmente moralistico. Accetto questo moralismo e non lo giudico da moralista. Voglio fare un’osservazione invece di tipo filologico-linguisticoculturale. Scusate se faccio un confronto forse sproporzionato. Siccome sono fresco dall’aver fatto un film dal Vangelo secondo Matteo ho molto presente il testo e ho cercato nella mia memoria il punto del Vangelo in cui ci fosse la parola dovere in bocca a Cristo. Secondo me non c’è. Ho chiesto ai miei amici se per caso la ricordassero e nessuno mi ha saputo indicare un punto in cui ci fosse la parola dovere nelle parole di Cristo. Quello che Cristo dice è sempre detto direttamente: ‘Dai questo, fai quest’altro’. Cioè è un insegnamento diretto, è il momento religioso diretto da parte di Cristo agli altri uomini. Oppure ricorreva a delle circonlocuzioni estremamente belle e poetiche tra l’altro. Invece di dire ‘Devi essere povero di spirito’, diceva ‘Beati i poveri di spirito’. Cioè non usava mai la parola dovere. Ora perché a un certo punto tutta la Chiesa cattolica da circa duemila anni dopo Cristo invece usa questa parola. Perché questa è la parola della mediazione culturale del Vangelo. Il Vangelo nel suo momento puro divino era in questo modo diciamo così pragmatico, divinamente pragmatico. Nel momento in cui si inserisce nella società ha dovuto accettare le varie culture, i vari momenti storici di questa società e vorrei rendere emblema di questa mediazione tra Vangelo e società la parola dovere. Ora sarebbe curioso fare una ricerca storica dei momenti in cui la parola dovere è stata variamente usata nella predicazione del Vangelo. Quali sono stati i punti in certe epoche storiche che sono presentati con più frequenza come dei doveri ecc. ecc. Però a me interessa l’ultimo momento culturale che ha prestato questa parola mediatrice al Vangelo. L’ultimo momento culturale è evidentemente la cultura dell’Ottocento, da una parte l’idealismo, insomma tutta la cultura postkantiana. Cioè in questo momento probabilmente agisce, soprattutto sulla parola dovere, come mediatrice del Vangelo e credenti Kant e il grande idealismo tedesco.

Questo discorso è così un po’ un excursus che naturalmente andrebbe approfondito e reso…meno campato in aria. Tutto questo per arrivare a dire che c’è un momento culturale comune a tutti noi, qualsiasi sia la nostra opinione religiosa, politica e sociale e anche qualsiasi sia la nostra esperienza vitale, nel senso esistenzialistico della parola. Cioè tutti operiamo in una cultura comune, la stessa cultura che dà una certa accentuazione alla parola dovere nel discorso di Padre Haering, questa stessa cultura è quella che dà una certa accentuazione alla parola dovere nella moralità marxista e nella moralità del liberalismo borghese ecc. ecc.

C’è qualcosa in comune: è su questo terreno comune che secondo me si può impostare questo famoso dialogo di cui forse questo incontro di oggi è uno degli episodi. E allora giungo alla conclusione. Per me appunto in questo ambito culturale in cui ci possiamo comprendere e in cui la parola speranza può effettivamente avere un reale significato comune, in questo ambito culturale per me la parola speranza coincide con la parola ragione. Ma non vorrei che voi intendeste la ragione in un senso razionalistico, liberale, ottocentesco laico, no. Sono in polemica con il laicismo borghese. Sono in forte polemica con il laicismo borghese quindi quando io dico ragione intendo qualcos’altro di quella che è stata la divinità della borghesia in questi ultimi cento anni. Intendo una ragione infinitamente più aperta, più umana, tale da comprendere in sé anche l’irrazionalismo di cui parlava Tecchi che è un momento inevitabile dell’uomo e tale da comprendere anche il momento religioso da parete di un marxista e il momento autenticamente sociale da parte di un cattolico.

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Nel 1965 alla Pro Civitate Christiana in un convegno l’intellettuale contestava gli assunti irrazionali e moralistici degli interventi «Serve una cultura comune»