solidarietà Centinaia di persone vengono ospitate in cinque container a Paganica.
«Le ditte che assumono devono garantire l’alloggio» DA ROMA A meth aveva la luce negli occhi anche a sera, quando stanco di una giornata tra ponteggi e cazzuole, era il primo ad offrirsi per rassettare la cucina. Giuseppe Russo, il responsabile del centro di prima accoglienza, ricorda tutti i volti dei lavoratori che ha visto passare in questi mesi. Ma quel giovane marocchino di ventisei anni con una moglie e due figli piccoli al nord, che una sera d’inverno ha bussato alla sua porta, lo ha ancora nel cuore. «Mi diceva che voleva dare una mano per ripagare dell’ospitalità – continua – dopo le prime tre settimane di accoglienza qui, ha preferito lasciare il posto ad un connazionale più anziano andando a dormire nei campi». Marocchini, tunisini, rumeni, albanesi con regolare permesso di soggiorno, ma anche calabresi e campani che il tam tam delle ricostruzione ha fatto venire a L’Aquila in cerca di fortuna. Centinaia gli operai che da gennaio hanno trovato un letto ed un pasto caldo nei cinque container a Paganica attrezzati dalla Caritas su un terreno della diocesi. Qui si procede a turnazioni di 21 giorni; «il tempo necessario per consentire a chi arriva in città in cerca di lavoro di trovarlo – continua Russo – molti riescono a sistemarsi, ma in tanti bivaccano nelle tende, nelle case inagibili ancora abbandonate, sotto i ponti». Solo il 30% di chi si è rivolto alla Caritas, infatti, riesce ad avere un contratto regolare, la maggior parte spiegano «accetta condizioni contrattuali al limite della legalità, spesso la modalità più frequente dell’impiego di questi lavoratori è il lavoro nero». Un problema che da dicembre continua a crescere ogni mese; un migliaio, forse anche più, i lavoratori che iniziano a inseguire il sogno aquilano della ricostruzione. «Qualche centinaio – precisa Gioacchino Masciovecchio, responsabile immigrazione Caritas Aquila – solo negli ultimi mesi. Raccontano di dormire in macchina e di giorno di lavorare come muratori, spesso con piccole ditte che non garantiscono loro nessuna soluzione abitativa. Noi non abbandoniamo nessuno, cercando di trovare alloggi in affitto a chi ha un contratto, diamo pacchi viveri e vestiti». Ma trovare una soluzione «più strutturata» è essenziale, continuano dalla Caritas, magari «obbligando, almeno moralmente, le ditte che assumono a garantire l’alloggio». Lontano dalla logica dei numeri, però, il colpo d’occhio che si ha entrando nella mensa di Celestino V racconta di un mare di povertà che si tenta di arginare con un cucchiaino. La fila sotto il porticato è lunga già prima di mezzogiorno; ci sono arabi, turchi, rumeni, ma anche alcuni italiani. Non è difficile capire da dove vengono, le mani e i vestiti sporchi di calce lo dicono per loro. «Non chiediamo né tessere di bisogno né permessi di soggiorno – spiega il direttore Paolo Giorgi – in totale spirito francescano qui si dà da mangiare a tutti». I pasti sono triplicati dopo il terremoto e il 90% dei bisognosi ora è operaio nei cantieri, aggiunge, «spesso non pagato dopo settimane di lavoro irregolare. Queste persone lasciano tutto per ricostruire la nostra città, sta alla serietà delle ditte, anche aquilane, dare il giusto compenso». Se non si recupera la dimensione della moralità, conclude, «non abbiamo nessuna speranza di ricostruire L’Aquila su basi solide».
Alessia Guerrieri – avvenire