Antidoti al torpore in forma di poesia

di SILVIA GUIDI

“Strano mestiere cercare parole da cucire l’una all’altra, guardando il muro per ore, sdraiati su un divano”; così Wislawa Szymborska amava prendere in giro se stessa e disinnescare con l’ironia ogni possibile rischio di retorica nel corso di un’intervista, di una lettura poetica o di un discorso ufficiale (incombenza che accettava come un male necessario, soprattutto dopo il premio Nobel del 1996).
La poetessa polacca è morta mercoledì scorso nella sua casa di Cracovia; nata il 2 luglio 1923 a Bnin, nella regione di Poznan, Szymborska aveva studiato e si era laureata in lettere e sociologia presso l’università della città dove ha sempre vissuto, o meglio, dove è diventata “maestra di una disciplina indispensabile e spesso ignorata: l’arte di essere vivi” – come scrive Roberto Calasso sul “Corriere della Sera” del 2 febbraio 2012 – regalando al mondo, grazie alla freschezza del suo sguardo, preziosi antidoti al torpore scolpiti nel cesello levigato di una pagina di versi, capaci di scavalcare agevolmente anche gli inevitabili tradimenti delle traduzioni in altre lingue.
“La Szymborska – continua Calasso sul “Corriere” – penetrava tra lettori di ogni tipo, dai più esigenti a quelli che, in linea di massima, evitano la poesia. I più sorprendenti, per vari motivi, erano questi ultimi; mossi dall’ammirazione e da una singolare forma di affetto, come verso qualcuno che sapesse qualcosa di molto preciso su loro stessi”.
Ogni giorno, ripete al lettore Szymborska con i suoi folgoranti aforismi in forma di poesia, abbiamo a disposizione una porzione di realtà che, con il suo flusso continuo di incontri imprevisti e la sua “massiccia dose di inesplicabile e sorprendente molteplicità” ci dovrebbe aiutare a non essere “come chiodi piantati troppo in superficie su un muro”, come scrive nella bellissima Disattenzione, tratta dalla raccolta Due punti: “Ieri mi sono comportata male nel cosmo / Ho passato tutto il giorno senza fare domande, / senza stupirmi di niente. / Ho svolto attività quotidiane, / come se ciò fosse tutto il dovuto. / Inspirazione, espirazione, un passo dopo / l’altro, incombenze, / ma senza un pensiero che andasse più in là / dell’uscire di casa e del tornarmene a casa. / Il mondo avrebbe potuto essere preso per / un mondo folle, / e io l’ho preso solo per uso ordinario. / Nessun come e perché – / e da dove è saltato fuori uno così – / e a che gli servono tanti dettagli in movimento. / Ero come un chiodo piantato troppo in superficie nel muro”.
Ben presto anche il popolo della Rete ha scoperto la meticolosa, ironica e colloquiale precisione espressiva della poetessa polacca, diffondendo via mail o via blog versi tratti dalle sue opere, in una sorta di samizdat clandestino nato spontaneamente per aiutarsi nella quotidiana battaglia contro la distrazione, la banalità e il conformismo (e la retorica dell’anticonformismo, travestimento raffinato e post moderno del conformismo stesso).
Non mancano, nell’opera della poetessa di Bnin, spine di pacata disperazione (“quanti vestiti ci lasciamo dietro le spalle nel nostro viaggio dal niente al niente?”; e perché non cedere, di fronte al morso di un dolore, o al vuoto lasciato dalla scomparsa di una persona cara, alla “pietà chimica” di un tranquillante?) in cui l’estraneità dell’uomo alla natura e al suo stesso destino viene descritta in tutta la sua vertigine, ma solitamente prevale un tono più sereno e disteso.
Sarcasmo e talvolta, raffinata perfidia nascono invece da una costante allergia agli slogan e alle frasi fatte (non solo degli altri: Szymborska ha confessato più volte il suo imbarazzo davanti alle sue prime poesie, pubblicate nel 1945, che rispecchiano i canoni estetici del realismo socialista): che significa “essere pronto” per qualcosa, se tutto nella vita è nuovo ad ogni istante? In fondo – riflette l’autrice – anche “alla nascita di un bambino il mondo non è mai pronto”.

(©L’Osservatore Romano 3 febbraio 2012)