Anniversari Matilde la contessa di ferro

Mathilda, Dei gratia si quid est: «Matilde che, se è qualcosa, lo deve alla grazia di Dio». Una formula che parrebbe ispirata a una semplice, umile fede: e che invece è usata come motto sul sigillo di una gran signora che dominò, a cavallo tra XI e XII secolo, gran parte del regnum Italiae di tradizione carolingio-ottoniana dalla Lombardia al Lazio settentrionale.

La marca di Toscana, istituita da Carlomagno e grosso modo corrispondente ai confini della Toscana attuale, era d’altronde stata oggetto tra VI e VIII secolo di consistenti insediamenti longobardi: e, poiché il popolo longobardo chiamava i suoi capi con il titolo romano di duces («duchi»), ai marchesi franchi di Toscana si erano anche, tradizionalmente, attribuito il titolo di duca.
Eppure Matilde, figlia di quel Bonifacio conte di Canossa al quale nel 1027 l’imperatore Corrado II detto «il Salico» (in quanto appartenente alla dinastia di Franconia) aveva affidato nel 1027 quella che i Franchi chiamavano la marca e i longobardi il ducato di Toscana, amò sempre definirsi, ancora con apparente modestia, semplicemente «contessa»: un grado inferiore cioè nella nomenclatura del pubblico servizio romano-germanico, a marchesi e a duchi.

Eppure quel dichiararsi «qualcosa per la grazia di Dio» era molto di più d’una dichiarazione di modestia o di una formula teologica che attestava una rigorosa ortodossia antipelagiana. Era l’orgogliosa attestazione della fiducia di stare dalla parte di Dio e di eseguire la sua volontà: così come il vescovo di Roma, allontanandosi nel 1054 con lo scisma d’Oriente dalla fratellanza ecclesiale con il patriarca di Costantinopoli, aveva risposto alla superba autodenominazione di «patriarca ecumenico» da parte di questi dichiarandosi servus servorum Dei con una modestia gonfia d’orgoglio.

Il 1054 richiama a uno dei primi atti di quel grande movimento promosso da un gruppo di monaci e di alti prelati nel pieno XI secolo che è conosciuto dagli storici come «riforma» (la più celebre prima di quella del XVI secolo, che i cattolici definiscono di solito «protestante») e che condusse a partire dal settimo decennio di quel secolo a un durissimo scontro fra gli imperatori romano-germanici (pur protagonisti, nel secolo precedente, dell’avvìo di un robusto movimento di riorganizzazione e di risanamento morale del clero) e quanti intendevano liberare la gerarchia ecclesiale dall’egemonia dei poteri laici.

Una egemonia che fatalmente aveva condotto vescovi e abati a svolgere soprattutto funzioni di governo civile e che aveva fatalmente generato disordini morali quali la simonia (traffico venale dei divini uffici) e un diffuso concubinato, al quale nella Chiesa latina si rimediò – tra l’altro – istituendo il celibato del clero, che liberava i religiosi dalla tentazione di arricchire la propria famiglia sottraendo beni alla Chiesa.
Ne nacque quella contesa nota come «lotta per le investiture»: un violento confronto tra i papi e gli imperatori a proposito della scelta delle gerarchie civili e religiose e del loro rapporto istituzionale, il cui episodio centrale – immortalato anche da Luigi Pirandello nel suo Enrico IV – fu il celebre incontro di Canossa tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV di Franconia. Nel celebre castello dell’Appennino emiliano presso Reggio, la principale rocca del casato che appunto da esso desumeva il suo titolo, ebbe luogo nel 1077 un incontro di riconciliazione tra il capo della Chiesa e quello dell’impero, del quale Matilde (congiunta del sovrano ma amica, alleata e decisa sostenitrice del pontefice e del suo progetto riformatore) fu mediatrice.

Allora poco più che trentenne – era nata nel 1046 dall’unione di Bonifacio di Canossa con la nobilissima Beatrice di Lorena – Matilde fu anche in seguito protagonista delle tumultuose vicende che accompagnarono la prima fase della «lotta per le investiture» e che presiedettero anche, nel 1096, alla partenza delle colonne di guerrieri e di pellegrini verso quell’avventura, al principio enigmatica e perfino disordinata, che noi definiamo «prima crociata». La magna Comitissa, com’era chiamata Matilde, sarebbe morta nel 1115 a Bondeno, tra Mantova e Ferrara, nel cuore delle terre feudali padane dominate dalla sua famiglia.

Non stupisce pertanto che Matilde «di Toscana» sia stata studiata negli ultimi decenni soprattutto da specialisti della storia del medioevo «centrale» (i secoli X-XII) e «padano». Va ricordato fra tutti uno studioso eccezionale, il carissimo e ancor oggi vivamente compianto Vito Fumagalli, precocemente scomparso a metà degli Anni Novanta – era stato appena insignito del laticlavio senatoriale –, che sulla pianura padana dei secoli di mezzo ci ha lasciato ricerche di eccezionale profondità, spazianti dalla storia agraria a quella delle strutture mentali profonde.

Fumagalli ha dato vita a una solida scuola medievistica bolognese e ha studiato a lungo, fra l’altro, la storia di Matilde. Anche per questo si saluta ora con gioia la riedizione di un suo celebre saggio al riguardo, che costituiva l’Introduzione edita nel 1984 all’edizione del contenuto di un celebre manoscritto, il Codice Vaticano latino 4922, contenente il poema latino De principibus Canusinis più noto come Vita Mathildis, redatto dal benedettino Donizone – allora venticinque-trentenne – del monastero di Sant’Apollonio di Canossa in esametri latini del tipo detto «leonino».

Lo studio di Fumagalli è stato opportunamente riedito nel volume di Donizone, Vita di Matilde di Canossa (Jaca Book, pp. XVI-265, euro 28) appassionatamente e inappuntabilmente curato da Paolo Golinelli, che ci fornisce non solo il testo latino tradotto in fluido italiano e generosamente annotato – chi lo leggerà non “salti” le ampie note: sono preziose! – ma corredato anche da un sobrio, puntuale saggio introduttivo.

Chi pensa a un noioso componimento encomiastico si sbaglia. I versi donizoniani, ricchi d’un loro ruvido fascino, sono letteralmente pieni di notizie storiche vive, appassionate, talvolta perfino divertenti e non prive né di una punta di humour né, talora, d’un lontano sapore piccante e insinuante. Donizone è, in ciò, quasi degno antenato del suo quasi-conterraneo Salimbene da Parma, il principe dei cronisti francescani del Duecento. E Golinelli, ch’è ormai considerato il maggiore esperto europeo di studi matildici, si muove con agio e padronanza perfetti all’interno del «suo» testo prediletto.

La Vita Mathildis è una lettura ideale da consigliarsi a chi ritiene gli studi medievistici una cosa ostica, polverosa, desueta, inutile. O a chi continua a parlare di un «buio medioevo», magari accostandolo a certi orrori dell’età contemporanea che sono invece esclusivi, quelli sì purtroppo, di essa.

Ma le novità, in questo novecentenario della scomparsa della Magna Comitissa, sono sul serio molte. Fra le altre appare di grande interesse documentario e critico la raccolta di fonti Documenti e lettere di Matilde di Canossa, con testo latino e traduzione italiana a cura di Franco Canova, Maurizio Fontanili, Clementina Santi e Giordano Formizzi, che si giova di una puntuale postfazione – indovinate un po’ – ovviamente dell’onnipresente Paolo Golinelli (Pàtron, pp. 524, euro 38).

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