Anche “buon pastore” può diventare un luogo comune, una frase fatta, un nome proprio: qualcosa di imbalsamato. Ma basta agitarlo un po’…

IL BUON PASTORE

Mimmo Paladino, 2007, Lezionario domenicale e festivo della Chiesa cattolica italiana

«Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono» (Gv 10,27-30)

Finalmente un buon pastore nuovo, invece di quello “classico”, con pecora in spalla, talmente riprodotto da diventare un luogo comune (e, nella Cei, un logo comune).

Con ciò non si vuole mancare di rispetto all’immagine antica, amatissima dai cristiani, che soltanto nei primi secoli l’hanno riprodotta un migliaio di volte. E l’hanno eletta simbolo senza bisogno d’inventarla: il portatore di ariete era una figura bucolica già esistente, che diceva benevolenza. I cristiani l’hanno utilizzato a modo proprio (come han fatto – in architettura – con le basiliche romane), rendendolo bello oltre che buono e poi associandolo al Cristo, che ha dato la vita per le pecore.

Benché nell’arte cristiana siano presenti anche altre tipologie di pastori (basti ricordare i due bellissimi di Ravenna, Gesù e Mosè, nel Mausoleo di Galla Placidia e nella Basilica di San Vitale, mentre accarezzano una delle loro pecore), il modello più diffuso è quello che si fa carico della pecora smarrita: vera e propria icona della misericordia, adatta soprattutto a rappresentare la prima delle tre parabole “dei perduti e ritrovati” (Lc 15), come le chiamava il card. Martini.

Le ragioni del suo successo sono forse dovute al nostro debole per il lieto fine, oltre al fatto che la figura richiama quella del servo. Ma, riproposta troppo a lungo nella stessa forma, è normale che perda forza: al vantaggio d’essere subito riconosciuta, unisce l’handicap dell’indifferenza al suo contenuto.

Anche dal punto di vista verbale, “buon pastore” può diventare un luogo comune, una frase fatta, un nome proprio: qualcosa di imbalsamato (come “figliol prodigo”), che tiene lontano il significato. Basterebbe agitarlo (ad es. rovesciandolo in “pastore buono”), per far pensare all’esistenza di un pastore cattivo: colui – guarda caso – di cui parla Gesù quando ricorda il mercenario, che solo per soldi ha cura delle pecore, che non le sa amare né chiamare per nome e che davanti al lupo scappa. Nel cap. 10 del Vangelo di Giovanni, letto dall’inizio, si vede come Gesù utilizzi l’immagine del pastore in più modalità, nelle quali fa da leitmotiv la sua capacità di conoscere le pecore e quella delle pecore di conoscere la sua voce.

Perciò va dato il benvenuto alle immagini, come questa di Paladino, che sanno cogliere aspetti nuovi del buon pastore. Del suo colpisce la postura inedita: entrambi di profilo, l’uomo e l’animale paiono ascoltarsi a vicenda, come in confessionale. Con pochissimi segni e un unico colore, l’artista è riuscito a creare il silenzio che unisce i due, necessario a fare spazio all’altro e a conoscerlo. Lo stesso silenzio che chiedono la musica e la poesia, per esistere.

in vinonuovo.it