ALLE RADICI DEL MINISTERO: omelia di Mons. Caprioli alla Messa Crismale

Omelia alla Messa Crismale 2010
 
Siamo qui convocati in Cattedrale per quella che il Concilio qualifica come una “speciale manifestazione della Chiesa nella partecipazione… alla medesima Eucaristia, alla medesima preghiera, al medesimo altare cui presiede il Vescovo circondato dal suo presbiterio e dai suoi ministri” (SC 41).
Nella scelta del tema per questa omelia cerco di farmi guidare dalla particolare grazia che la Chiesa sta vivendo.
L’anno scorso era la grazia dell’Anno paolino, quest’anno è la grazia dell’Anno sacerdotale. Cercherò, se possibile, non di dire cose nuove, che non conosciamo, ma di mettere in pratica quelle che conosciamo, facendo vibrare il nostro cuore al contatto con la Parola di Dio.
 
Amore per Cristo
 
Il Vangelo di Luca, al capitolo 4, presenta la missione di Gesù come un cammino che si distende tra due realtà. Quella delle attese della gente da una parte, e quella del mandato ricevuto dallo Spirito del Signore di annunciare a tutti il lieto messaggio del Vangelo. La realtà che più ci colpisce immediatamente è quella delle attese della gente. Gesù parla, rileggendo Isaia, di poveri, di prigionieri, di ciechi e di oppressi, di piaghe, di cuori spezzati e mesti.
 
E, tuttavia, c’è un’altra realtà richiamata dalle parole di Gesù: la realtà dell’azione dello Spirito, la grazia di una consacrazione al ministero, il mandato ricevuto dal Padre. Più leggo il Vangelo e più sono colpito dal rapporto esclusivo di Gesù con il Padre. Lungo tutta la sua vita, Gesù considera la propria relazione con il Padre come il centro, l’inizio e il fine del proprio ministero.
 
Noi siamo chiamati a non perdere mai di vista questo fondamento della missione di Gesù. Non di rado ci capita di sentirci sommersi dai doveri e dalle fatiche del ministero pastorale, e prima ancora dai problemi aperti che chiedono interventi decisi, organici, tempestivi. Ma Gesù, mentre incoraggia la nostra attenzione a non trascurare nessuno, ci invita a coltivare anche l’umile disponibilità all’azione del suo Spirito, allo spirito di amore per Lui.
 
Non è un caso che Paolo all’inizio delle sue lettere si presenti come “Paolo, servo di Cristo, apostolo per vocazione” (cf. Romani 1,1). “Servi di Cristo”: ecco la carta di identità, il passaporto invisibile che dovrebbe toccare il nostro cuore e primo titolo di riconoscimento là dove siamo mandati. Qui non parliamo dei servizi pratici o ministeriali, come amministrare la Parola e i sacramenti, servire la carità. Non parliamo del servizio come atto, insieme di atti da compiere, ma del servizio come stato, stato di vita, come vocazione fondamentale e come radice dell’identità stessa del ministero.
 
Alla radice del ministero sta la domanda di Gesù Risorto a Pietro: “Mi ami tu, più di costoro?” (Giovanni 21,15). Ecco qui la prima radicedel nostro ministero: l’amore per Gesù sopra ogni cosa.Sembra poco e magari un dato scontato, ma è un punto nodale, che precede l’amore al ministero per la sua bellezza, per la sua importanza, per l’aiuto che offre alla gente, per la salvezza che annuncia.
 
Fedeltà alla Chiesa
 
Una seconda radice del ministero è la fedeltà alla Chiesa. È questa l’esortazione che ci viene ancora una volta dall’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani, al capitolo 12, testo biblico di riferimento dei nostri Ritiri quaresimali: “Come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la stessa funzione, così anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri” (Romani 12,4-8).
 
In vista dell’Anno sacerdotale mi sono riletto anch’io il libro di Dom Chautard “L’anima dell’apostolato” che — ricordo — aveva scosso le nostre coscienze di giovani preti negli anni anteriori al Concilio. In un momento in cui c’era grande entusiasmo per le “opere parrocchiali” — cinema, ricreatori, iniziative sociali, circoli culturali — l’abate francese riportava bruscamente il discorso al cuore del problema, denunciando il rischio di un attivismo frenetico.
 
Non intendeva ridurre l’importanza delle attività pastorali, ma riaffermare che senza una vita di unione con Cristo, le attività non erano che “stampelle”, o, come le definiva S. Bernardo, le “maledette occupazioni”. Il libro di Chautard avrebbe potuto benissimo intitolarsi “L’anima di ogni presbitero”. A quel tempo, il pericolo a cui si intendeva reagire, era il cosiddetto “americanismo”: l’eresia condannata da Leone XIII — il Papa che tuttavia ha scritto la prima enciclica sociale, la Rerum novarum —, un pericolo che, anche a causa del diminuito numero dei sacerdoti, potrebbe ancora insidiare il clero.
 
Sì, essere prete è di più che fare il prete. Come la Chiesa può aprirsi al mondo, se i suoi ministri non hanno più nessuna interiorità da offrire? E se non si tiene vivo l’intimo rapporto con il Signore Gesù, il “tesoro nascosto” da Dio nel “campo” della Chiesa (cf. Matteo 13,44)? Come richiamavo l’anno scorso, c’è una povertà del presbitero nell’uso dei beni (povertà effettiva), ma c’è prima una povertà secondo lo stile di vita del presbitero nella nostra Chiesa latina (povertà affettiva), che chiede di essere vissuta nella fedeltà al celibato come amore indiviso verso il Signore e dedizione totale alla Chiesa, alla comunità del “centuplo” promesso, già nella vita terrena, da Gesù a Pietro, a “coloro che lasciano casa o fratelli o sorelle…” (Marco 10,28-30).
 
A questo il prete oggi è chiamato, con la parola e con la testimonianza personale della vita. È vero, di fronte all’insufficienza della nostra azione sacerdotale, spesso e volentieri, diamo la colpa ai metodi non aggiornati, e non sempre a torto. Ma se oggi abbiamo bisogno di nuovi metodi di azione, il nostro bisogno più grande e urgente è l’approfondimento di ciò che è l’essenziale. Senza questo impegno, anche i metodi di azione più aggiornati resteranno inefficaci.
 
È questa l’attualità del messaggio del santo curato d’Ars: essa deriva proprio dal fatto che egli non introduce una forma particolare di azione, un nuovo metodo di apostolato, anche se non ha mancato di fare questo, ma scaturisce anzitutto da un approfondimento spirituale di una unica condizione: quella di sacerdote, di parroco in particolare, mandato dalla sua Chiesa, dove c’era bisogno.
 
 
Testimoni di vita
 
Colgo qui una terza radice del nostro ministero. Ce la richiama la profezia di Isaia proclamata nella prima lettura: “Lo Spirito del Signore è su di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati” (Isaia 61,1-3). Il testo più ampio di Isaia ci parla anche di schiavi e prigionieri, di afflitti, di abiti da lutto, di tristezze. E Gesù si dirà mandato per questa gente che soffre.
 
Prendo qui lo spunto da una domanda che un parroco ha fatto a Benedetto XVI nell’incontro con il clero romano. Il sacerdote, provocato da una sua parrocchiana a “scendere dal piedestallo” per diventare più umano, confessava al Papa la sua inadeguatezza sia sotto il profilo culturale, per la scarsa conoscenza delle direttrici di pensiero contemporaneo, sia sotto l’aspetto umano, per cercare di capire, senza fretta di giudicare, e domandava al Papa: “Come costruire in noi preti un’umanità bella e feconda?”
 
Alla domanda il Papa, sentendosi a sua volta provocato come pastore, rispondeva, coniugando due aspetti del ministero pastorale: semplicità del Vangelo e umanità del prete. E spiegava citando l’esempio di un amico che, dopo avere ascoltato prediche con lunghe riflessioni antropologiche, alla fine chiedeva semplicemente: “Io vorrei capire però che cosa dice il Vangelo”. Sì, non perdiamo la semplicità della verità. Sotto questo profilo, il Papa stesso appare a molti un esempio: dice cose profonde, evangeliche, con linguaggio semplice. Forse, anche per questo suscita reazioni in chi si oppone alla sua determinazione.
 
Del resto, Gesù stesso nei Vangeli si mostra anche severo, giudica e condanna, ma con chi lo fa? Non con la gente semplice, che lo seguiva e veniva ad ascoltarlo, ma con gli ipocriti, gli autosufficienti, i maestri del suo tempo. Gesù non era davvero, come si dice: “Forte con i deboli e debole con i forti”. Tutto il contrario! (Significativa, come abbiamo visto nell’assemblea del clero di febbraio, la maturazione anche nel S. Curato d’Ars dalla iniziale necessaria intransigenza con la sua personale accoglienza della sua gente).
 
Anche la contestualizzazione culturale e umana di chi esercita il ministero è importante, e necessita di aiuti, sussidi, aggiornamenti, ma — afferma ancora il Papa — “il primo aiuto è la nostra stessa esperienza personale”. Cita S. Bernardo di Chiaravalle che, al suo discepolo Papa Eugenio, raccomanda anzitutto di “bere dalla (tua) propria fonte, cioè dalla propria umanità”. Non basta essere attenti al mondo di oggi, ma anche essere attenti al Signore in me stesso. È in questo essere del prete uomo di questo mondo e nello stesso tempo un credente di Cristo, che il messaggio eterno si traduce in messaggio attuale.
 
Termino con una preghiera dell’abate Chautard: “O Dio, date alla Chiesa tanti apostoli, ma ravvivate nel loro cuore una sete ardente di intimità con Voi, e insieme il desiderio di lavorare per il bene del prossimo. Date a tutti un’attività contemplativa e una contemplazione operosa”.
+ Adriano VESCOVO
 
Reggio Emilia, 31 marzo 2010 – Omelia alla Messa Crismale al clero, ministri e fedeli riuniti in Cattedrale.