Afghanistan. La resistenza silenziosa delle donne di Herat

Le testimonianze sugli ultimi editti sul velo del regime afghano: «Abbiamo tentato di scendere in piazza contro i decreti, ma i taleban hanno detto ai mullah di fermarci»
Sarte al lavoro, con addosso il burqa, in un negozio di Kandahar

Sarte al lavoro, con addosso il burqa, in un negozio di Kandahar – Ansa

Avvenire

È la peggiore versione dei taleban anni Novanta quella che colpisce le ragazze afghane dalla presa di Kabul. Eppure a vederle sullo schermo, in videochiamata, Zahra Ebrahimi e Khatera Arazo, tutto sembrano tranne che intimidite. Per cautela scelgono nomi fittizi, ma hanno molto da dire, e il coraggio per farlo. La prima, 23 anni, insegna alfabetizzazione in un piccolo centro di formazione di una Ong a Herat, nell’Ovest del Paese. La seconda, 18 anni, è una sua collega del laboratorio di sartoria. Il centro, ospitato in una casa, tiene un profilo basso per non dare nell’occhio. Per l’ottantina di ragazze che lo frequentano, però, poterci andare è vitale come l’aria che filtra, pur con difficoltà, attraverso il loro velo integrale. «I taleban sono venuti un paio di volte, hanno chiesto che nessun uomo entri in casa» spiega la direttrice Masooma Afghan.

«”Hanno messo in chiaro che tutto deve essere conforme alla sharia. Per ora ci lasciano lavorare». Ai corsi tenuti da Zahra per leggere e scrivere partecipano ragazze fino ai vent’anni, ben oltre l’età consentita nelle scuole ufficiali. Durante il collegamento video, l’insegnante si alza, afferra il chador, e lo indossa per mostrare il mantellone che poggia sopra l’hijab che già prima portava sul capo e al collo. Per il viso usa maschere anti-Covid.

«È difficile respirare così coperte quando fa caldo. Ora se metti dell’acqua all’aperto, comincia a bollire» sorride per la battuta, poi prosegue seria: «Ci sentiamo stordite, con le vertigini. Ed è complicato muoversi, devi guardare in giù dove metti i piedi». Interviene Khatera, che è sarta e con le corsiste confeziona abiti per le sue clienti. «In passato ci commissionavano modelli corti e stretti, ora solo ampi e coprenti anche per i matrimoni». L’annuncio dell’obbligo di velo integrale è stato fatto il 7 maggio in tv, in moschea, tra gli anziani dei distretti.

«Sono stata sorpresa con la mascherina abbassata una volta e un talib mi ha intimato di coprirmi», aggiunge la sarta. Per evitare guai, Zahra si sigilla sotto strati di abiti. «Non voglio interazioni con quella gente. Già prima avevamo problemi, ora si sono moltiplicati. La maggior parte delle insegnanti è disoccupata o fa le pulizie in case di privati». Intanto, in vari punti della città, nei mercati «c’è sempre un talib con un’arma in spalla e un bastone» aggiunge la direttrice.

Le chiediamo se a Herat si siano svolte proteste contro il velo integrale come a Kabul. «Ci abbiamo provato. I taleban, però, hanno chiesto ad anziani e mullah di impedire ogni resistenza». Dal tormento di coprirsi, la conversazione si sposta su patimenti ancora maggiori. Perché a venire soffocato in Afghanistan non è solo il respiro sotto il chador. «Ci sentiamo guardate a vista, osservate in ogni gesto, la loro attenzione è su di noi come in carcere», si sfoga Zahra. «Di molte cose non si parla, ci sono fatti che non finiscono sui giornali, ma accadono e sono terribili».

La direttrice racconta di una giovane trovata in un parco con un ragazzo. Uccisi entrambi, il corpo di lei si dice sia stato legato a un’auto di taleban e trascinato. «Se qualcuno sbaglia, lo puniscono fino alla morte, e appendono il cadavere a qualche incrocio, dicendo che era armato e nessuno può obiettare niente” conclude la direttrice. «Ecco come vanno le cose qui», dice Zahra. “Per loro le persone non valgono nulla». Tutto il contrario di quello che succede dentro la casa-scuola di queste donne, che al destino delle loro studentesse ci tengono eccome. Alla fine delle lezioni, ogni giorno, infilano il lungo chador e tornano alle famiglie, per ricominciare l’indomani con la loro resistenza ostinata e silenziosa.