A conclusione dell’Anno della Misericordia il papa ha avuto l’intuizione di lanciare a tutto il mondo la Giornata mondiale dei poveri. Non un’ulteriore iniziativa, ma una provocazione alla Chiesa per dare voce ai poveri

diacono

Francesco non esita a dire a Gesù: «in questo nostro mondo, che tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato» (Omelia durante il momento di preghiera straordinario in Piazza San Pietro il 27 marzo 2020). Pertanto una missione quella dei cristiani a «collaborare per risolvere le cause strumentali della povertà e per promuovere lo sviluppo integrale dei poveri», come pure quella di «gesti semplici e quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie molto concrete» che ogni giorno sono dinanzi ai nostri occhi (cfr EG 188). «Non amiamo a parole, ma con i fatti».

Il papa in un’omelia a santa Marta parla purtroppo della «spaccatura tra l’élite dei dirigenti religiosi e il popolo, un dramma che viene da lontano. È gente di seconda classe: noi siamo la classe dirigente, non dobbiamo sporcarci le mani con i poveri».

«I poveri li avete sempre con voi»
È il messaggio della V Giornata mondiale dei poveri: Gesù pronunciò queste parole nel contesto di un pranzo, a Betania, nella casa di un certo Simone detto «il lebbroso», alcuni giorni prima della Pasqua. Come racconta l’evangelista, una donna era entrata con un vaso di alabastro pieno di profumo molto prezioso e l’aveva versato sul capo di Gesù. Quel gesto suscitò grande stupore e diede adito a due diverse interpretazioni.

Servire con efficacia i poveri provoca all’azione, mette in gioco l’identità e la missione dei diaconi che è il servizio ai poveri con l’amore di Cristo. In questo l’icona della scelta dei «servitori alle mense» (At 6) serve da archetipo. Non si tratta solo di generosità e beneficienza verso i poveri. Ma di familiarità e solidarietà con loro, come ripete papa Francesco: «spesso i poveri sono considerati come persone separate, come una categoria che richiede un particolare servizio caritativo. Seguire Gesù comporta, in proposito, un cambiamento di mentalità, cioè di accogliere la sfida della condivisione e della partecipazione» (n. 4).

Il tema della povertà della Chiesa si pone al centro del Concilio Vaticano II e del magistero postconciliare dei pontefici. Una Chiesa ricca, distratta rispetto ai poveri o che se ne serve per conquistare il mondo, vela l’Evangelo, impedisce agli uomini di riconoscere la via della Croce, da cui viene la salvezza per ogni uomo. Ma cosa significa tutto questo nell’essere concreto della Chiesa nella storia? Guardando a quello che è avvenuto, in questi anni che ci separano dalla chiusura del Concilio, si ha l’impressione che, se è cresciuto in modo molto forte l’impegno di servizio a favore dei poveri, dalla parte dei poveri, deve accrescere sempre di più l’approfondimento del mistero di una Chiesa povera.

Non si tratta di inventare niente di nuovo, di trovare nuove formule pastorali, ma di attingere sempre alla sorgente piena e viva del mistero di Cristo, per la forza dello Spirito Santo. Come diceva in un suo intervento il card. Lercaro, il 4 novembre del 1964, in Concilio: «Sono le parole evangeliche, che sanciscono il modo più vero ed efficace con cui la Chiesa è presente al mondo e a tutto il mondo: cioè il modo del martyrion, cioè la testimonianza nel senso dell’attestazione pura e semplice del Vangelo e della coscienza evangelica in faccia a tutte le genti, ai loro principi e capi; presenza che è specialmente la diaconia, cioè il di tutti, di essere inviato soprattutto per i piccoli, gli umili, i poveri, per quelli ai quali si dà senza sperarne nulla (Lc 6.34-35), senza poterne ricavare un aumento di potere; presenza che è l’essere finalmente inviata a tutte le genti senza che mai possa considerarsi stabilita e compiuta in una gente, in una rana, in una cultura, in una lingua».

Secondo questo brano, vivere il mistero di una Chiesa serva e povera dentro la storia significa innanzi tutto dare testimonianza (martyrion) dell’Evangelo, nella sua semplicità, senza alcun altro sostegno che non sia la forza inerme della Parola di Dio, non sovrapponendo parole proprie, ma quasi scomparendo dietro la buona notizia di Gesù, con passione, senza timidezza né arroganza, di fronte ad ogni uomo, ai popoli, a chi domina e a chi è dominato, dentro i conflitti. Appare allora una Chiesa, che non privilegia una parte del mondo, che non si identifica in una cultura, che non ha nemici, ma in un amore senza limite, annuncia e consegna a tutti e ai poveri, prima di tutto la Parola della salvezza, ponendo il segno scandaloso della comunione con la testimonianza (martyria) di Cristo, il testimone fedele (Ap 1,5).

Dalle celebri affermazioni conciliari (si veda LG 8; GS 8-9), dalla lapidaria espressione di Paolo VI, «i poveri sono sacramen­to di Cristo», quanta acqua è passata sotto i ponti! Insomma, – scrive Francesco – i credenti, quando vogliono vedere di persona Gesù e toccarlo con mano, sanno dove rivolgersi: i poveri sono sacramento di Cristo, rappresentano la sua persona e rinviano a Lui» (n. 3). Forse tra le scelte conciliari, quella per i poveri fu la più drammatica e la più costosa. Definirsi dentro l’Occidente opu­lento come Chiesa dei poveri che sceglie i poveri come suo sa­cramento, significava candidare al martirio molti cristiani, distanziarsi da una storia troppo abbondantemente segnata dalle esigenze di profitto e mercato, farsi antagonista di quanti sullo sfruttamento e l’ingiustizia fondano anche oggi la loro egemonia. Scrive Francesco nel Messaggio: «se non si sceglie di diventare poveri di ricchezze effimere, di potere mondano e di vanagloria, non si sarà mai in grado di donare la vita per amore; si vivrà un’esistenza frammentaria, piena di buoni propositi ma inefficace per trasformare il mondo» (n. 5).

In verità col Vaticano II la Chiesa non imbarcò molti poveri nella barca di Pietro. Ma da lì, preso il largo, approdò a Medellin, a Puebla, in Africa, nell’immensa Asia, nelle aree degradate delle metropoli, fra tutti i forzati della storia. Questa recente storia di Chiesa non è stata rinnegata. Ma l’onda lunga si è come smorzata, che si fa fatica a proseguirla, che si è tentati fortemente di restaurare il primato della verità sulla carità, per trovare un buon motivo che mutili un po’ la diakonia ecclesiale e privilegi un tranquillo kerigma di principio. Se giocasse la paura e la voglia di quieto vivere, se insomma ci si riscoprisse amanti della propria tranquillità, dei propri privilegi, alleati del “pensiero unico” e del Nuovo Ordine Mondiale pensato dai ricchi e per i ricchi, dove mai raggiungeremmo Dio?». Per questo, per papa Francesco, «si impone un differente approccio alla povertà. È una sfida che i Governi e le Istituzioni mondiali hanno bisogno di recepire con un lungimirante modello sociale, capace di andare incontro alle nuove forme di povertà che investono il mondo e che segneranno in maniera decisiva i prossimi decenni» (n. 7).

Allora bisogna trovare le forme più adeguate per risollevare e promuovere questa parte di umanità troppe volte anonima e afona, ma con impresso in sé il volto del Salvatore che chiede aiuto. Servizio, che non è generato da una strategia pastorale ma da una chiara indicazione del Signore, che ha posto l’evangelizzazione dei poveri come segno messianico per eccellenza. Non solo ma «i poveri di ogni condizione e ogni latitudine ci evangelizzano, perché permettono di riscoprire in modo sempre nuovo i tratti più genuini del volto del Padre» (n. 2).

La diaconia, pertanto, è prima di tutto al Signore e al suo Vangelo e per questo è capace di ascoltare il grido dei poveri, di accompagnarli nel loro cammino di liberazione. Solo una Chiesa serva e povera può cercare l’ultimo posto nella storia, a misura del suo Signore, che si è fatto servo, diacono, per tutti, per vivere nella compagnia degli abbandonati della terra, per testimoniare la consola­zione di quel Dio, che in «gesti» non solo si è posto dalla parte dei poveri, ma egli stesso si è fatto povero, perché nessuno fosse escluso dalla salvezza.

Il ministero del diacono per l’edificazione di una Chiesa serva e povera
«Rimane aperto l’interrogativo per nulla ovvio: come è possibile dare una risposta tangibile ai milioni di poveri che spesso trovano come riscontro solo l’indifferenza quando non il fastidio?» (n. 6)

Vale la pena ricordare il paragrafo 29 della Lumen Gentiun che afferma la scelta del Concilio Vaticano Il della restaurazione del diaconato nella forma perma­nente. È da notare che proprio la collocazione del ministero diaconale nella Lumen Gentium, nel capitolo sulla costituzione gerarchica della Chiesa e in particolare dell’episcopato, sta ad indicare non una scelta di carattere pastorale o disciplinare, ma teologico, collocandolo dentro la struttura sacramentale della Chiesa. Il card. Suenens in un intervento di particolare rilievo nel dibattito conciliare, così spiega: «Questo grado (il diaconato) appare costituito in modo particolare ad ausilio diretto del vescovo e più precisamente per funzioni collegate con l’assistenza dei poveri con il buon andamento sociale, con la preparazione per così dire comunitaria e liturgica della Chiesa locale: presenta quindi un rapporto specifico con tutto quello che riguarda ad un tempo la carità tra i fratelli e la koinonia eucaristica, che sono in stretto rapporto di interdipendenza. Diaconia, nel senso particolare di questo ministero, è dunque in strettissimo rapporto con koinonia, sia sotto l’aspetto sociale dello scambio fraterno dei beni materiali e spirituali sia sotto l’aspetto della comunione eucaristica nella fractio panis (At 2,42 e 4,32-35; Eb 13.16)».

Il ministero del diacono è qui visto in rapporto alla comunione con l’evento eucaristico e con i poveri, in un servizio di preparazione della comunità cristiana «a mangiare degnamente» del Corpo del Signore, come fonte della carità verso i deboli e come celebrazione di questa carità. Ma il suo ministero è a servizio del vescovo, servendo l’Eucaristia e i poveri, preparando la Chiesa locale ad essere serva del Risorto e serva dei fratelli, in particolare i più abbandonati e i più esclusi. Secondo una espressione della Chiesa antica, ripresa dal Concilio, al diacono sono imposte le mani «non per il sacerdozio, ma per il ministero» del vescovo. Questo ministero è manifestazione e realizzazione efficace della diaconia di Cristo. Dice Ignazio di Antiochia, scrivendo ai cristiani di Magnesia: «vi scongiuro compite tutte le vostre azioni in questo spirito di concordia, che piace a Dio, sotto la presidenza del vescovo, che tiene il posto di Dio, dei presbiteri, che rappresentano il senato degli apostoli, dei diaconi, oggetto della mia parti­colare predilezione, della diaconia di Gesù Cristo, che era presso il Padre, prima dei secoli, e che si è rivelato alla fine dei tempi».

Nell’essere servo dell’Eucaristia e servo dei poveri, il diacono rende visibile il servizio di Cristo, che nel pane spezzato e nel vino versato «ha dato la propria vita in riscatto di molti» (Mc 10, 45), annunciando così la buona notizia ai poveri della terra, manifestando l’agàpe di Dio (1Gv 4, 7-1 1), che genera l’amore senza limiti verso i fratelli. Per questo c’è una grazia particolarissima da Dio, come dice la formula dell’ordinazione diaconale nella Traditio apostolica di Ippolito: «O Dio, che tutto hai creato e ordinato con la Parola, o Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che hai mandato a servire la tua volontà e a manifestarci il tuo proposito, concedi lo Spirito santo della grazia, dello zelo e della diligenza a questo tuo servo, che hai scelto per servire la tua Chiesa e per offrire, nella santità nel tuo santuario, quanto sarà offerto dall’erede del sommo sacerdozio».

Questo significa superare ogni prospettiva funzionalistica: non si tratta di affidare al diacono mansioni marginali alla loro diaconia, ma di riconoscere il ministero, sigillandolo con la grazia sacramentale, che dà all’azione del diacono un’efficacia ed una grazia, creatrice di un ordine comunitario. Seguendo altre suggestioni, come ha ricordato Suenens in Concilio, «la Chiesa rischia di ridursi ad una organizzazione naturale e rischia di non essere il corpo mistico di Cristo, articolato nei ministeri e nelle grazie da lui preordinate a questo fine».

In realtà l’edificazione di una Chiesa serva e povera, proprio perché questo rimanda in modo diretto e preciso al ministero di Gesù, servo povero e sofferente del Padre, non avviene attraverso opzioni sociologiche e pastorali, legate esigenze immediate della vita della Chiesa, ma dall’alto, perché il Signore dona ad essa, attraverso la Parola e l’Eucaristia, la forza dello Spirito Santo, per essere somigliantissima a Gesù, che «da ricco che era si è fatto povero per arricchirci con la sua povertà» (2Cor 8,9), «assumendo la condizione di servo (…) obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fl 2, 7-8). In questa edificazione «dall’alto» di una Chiesa serva e povera, il diacono, con il suo ministero, «rappresenta» Cristo servo povero di Dio. Per il sigillo sacramentale, la verità evangelica del servizio di Gesù è resa presente e operante nel diacono. Tra il diacono e la sua Chiesa locale si crea un dinamismo di mutua inclusione: nel diacono è rappresentata la diaconia di Cristo, che è misura della diaconi a della Chiesa, e il diacono opera perché la Chiesa sia edificata secondo questa diaconia, per essere fedele alla volontà del suo Signore. Rappresentando Cristo servo, il diacono è il segno di Lui, che è misteriosamente presente nella «forma del servo» nella sua Chiesa come fonte di grazia, perché la Chiesa diventi quello che è costitutivamente nel suo ministero: la comunità dei discepoli servi e poveri del Signore.

L’occhio della Chiesa sui poveri
La radice cristologica dell’ufficio diaconale è profondissima. Ciò appare, d’altronde, esemplarmente anche nell’attività e nella morte di santo Stefano, che è non a caso protomartire e protodiacono. Qui risiede il nocciolo permanente dell’«ufficio» del ministero diaconale.

Penso, per esempio, all’interessamento per gli stranieri e i senza patria, le persone sole e i poveri, gli anziani e i malati, ma anche alla collaborazio­ne al movimento delle case di riposo. Infine, vi sono molte altre necessità delle quali oggi poco si parla, a cominciare dal consumo della droga e dalla dipendenza dal­l’alcool fino alla mancanza di orientamento, alla demotiva­zione e alla disperazione. Anche quando il diacono assume altri compiti, come quelli che sono stati espressi dal Conci­lio, non può mai mancare questo nocciolo centrale e privilegiato del suo compito. Esso rappresenta anche un interesse fondamentale di ogni vescovo. Karl Rahner scriveva: «A mio avviso, il vescovo ha l’espresso dovere di rendere presente nel mondo l’amore di Cristo nei riguardi di tutti i sofferenti, i poveri e i deboli, i perseguitati, ecc. Ora a questo compito assolutamente prioritario del vescovo il diacono non partecipa meno di qualsiasi altro sacerdote».

Forse sarà necessario prendere in considera­zione tutte le questioni che oggi dobbiamo affrontare e alle quali dobbiamo dare un’attenta risposta. Penso, ad esempio, alla questione dei pieni poteri direttivi dei diaconi nei riguardi delle comunità alla rappresentanza dei diaconi nei consigli a tutti i livelli, alla necessità di fissare un diritto proprio dei diaconi per quanto attiene all’esercizio del loro ministero, alla formazione e al discernimento e, in particolare, al rapporto fra il dia­conato e gli altri ministeri pastorali.

Il ministero del diacono: Parola, Eucaristia, Poveri
Il diacono dunque prepara ed edifica una Chiesa secondo la diaconia di Cristo. Dalla Pentecoste alla Parusia del Signore, la Chiesa di Dio è chiamata a dimorare nella terra in stato di diaconia. Pietro così riassume il ministero diaconale di Gesù: «Dio consacrò in Spirito santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tuffi coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (Atti 10, 38). È certo, dunque, che due sono le forme primordiali della diaconia dell’Evangelo: il servizio dei poveri, dei piccoli, degli afflitti, dei peccatori, e il servizio della Parola. Questi due servizi sono attestati nel capitolo 7 degli Atti (7, 2 e 4) e certamente si richiamano l’uno all’altro, nella misura in cui sono due momenti dell’unico ministero diaconale di Gesù. Per la forza dello Spirito santo la diaconia del Signore Gesù passa in quella della comunità ecclesiale. Sulla stessa lunghezza d’onda si pone l’apostolo Paolo quando esorta i cristiani delle sue comunità a soccorrere i poveri della prima comunità di Gerusalemme e a farlo «non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7). «Non si tratta di alleggerire la nostra coscienza facendo qualche elemosina, ma piuttosto di contrastare la cultura dell’indifferenza e dell’ingiustizia con cui ci si pone nei confronti dei poveri» (n. 7). La comunione di Gesù all’amore del Padre per i poveri, per i feriti dalla storia, per i peccatori passa nella diaconia della Chiesa al cuore dei conflitti tra gli uomini.

L’Eucaristia è ciò che costituisce al cuore della Chiesa il dinamismo di questa doppia diaconia.

Nicolas Afanassieff, noto teologo ortodosso, sottolinea fortemente questo: «Là dove vi era una assemblea eucaristica doveva esistere il ministero del servizio ai poveri. La vita della Chiesa è basata sull’amore, che si esprime nella maniera più completa nell’assemblea eucaristica, manifestazione della Chiesa in tutta la sua pienezza. L’Amore è il carisma comune di tutto il popolo di Dio e senza di esso non ci può essere alcun ministero nella Chiesa. Nella Chiesa primitiva, non c’era della beneficenza a titolo privato, se non in maniera molto limitata. Invece di questo, ogni membro della Chiesa portava il suo dono dell’Amore all’assemblea eucaristica. Questi doni costituivano «i tesori dell’Amore», da cui si prendeva il necessario per gli aiuti. Il ministero del servizio ai poveri appare molto presto nella chiesa: più esattamente appare nel medesimo tempo della prima assemblea eucaristica. Qualunque sia la soluzione, che si vuole dare al problema dei sette, è indubitabile che l’aiuto ai poveri fa parte del loro ministero».

Appare con chiarezza che l’edificazione di una Chiesa serva e povera avviene nell’Eucaristia, e non vi può essere una Chiesa eucaristica che non sia serva di Dio nei poveri. «I poveri – scrive Francesco – non sono persone “esterne” alla comunità, ma fratelli e sorelle con cui condividere la sofferenza, per alleviare il loro disagio e l’emarginazione, perché venga loro restituita la dignità perduta e assicurata l’inclusione sociale necessaria. D’altronde, si sa che un gesto di beneficenza presuppone un benefattore e un beneficato, mentre la condivisione genera fratellanza. L’elemosina, è occasionale; la condivisione invece è duratura. La prima rischia di gratificare chi la compie e di umiliare chi la riceve; la seconda rafforza la solidarietà e pone le premesse necessarie per raggiungere la giustizia» (n. 3). Il ministero del diacono, nel suo servizio, si pone a questa congiunzione.

Da Giustino noi sappiamo che la sinassi eucaristica è il momento in cui «si leggono le memorie degli apostoli e gli scritti dei profeti e finita la lettura colui che presiede prende la parola per avvertire ed esortare ai buoni insegnamenti» (cap. 1,7). Ma è anche il momento in cui «coloro che sono nell’abbondanza danno liberamente, ciascuno secondo ciò che vuole, ciò che è raccolto è rimesso nelle mani di colui che presiede, perché assimila gli orfani, le vedove, i malati, gli indigenti, i prigionieri, gli stranieri, in una parola egli porta aiuto a coloro che sono nel bisogno» (Ap 1,7). Le due forme della diaconia sono inseparabili. Ma questa unione nasce dal fatto che la Parola spinge alla carità. Il ministero del diacono allora non può non essere un ministero legato alla Parola, all’Eucaristia, alla carità, in un equilibrio dinamico secondo lo Spirito tra i tre momenti, pena il rischio di cadute sociologiche e ritualistiche. La Chiesa serva e povera è del Signore e dal Signore è consegnata agli uomini per essere segno e strumento della sua misericordia e della sua tenerezza per tutti, e in particolare per i piccoli. Il diacono è ministro per l’edificazione e la compaginazione di questa Chiesa, rendendo efficacemente presente il servizio scandaloso di Cristo fino alla morte.

In un antico ordinamento ecclesiale Siro del terzo secolo sono descritti un venta­glio di disponibilità affidate al diacono, e tutto questo senza limiti. I compiti spaziano dalla scoperta e sepoltura del corpo di un naufrago alla testimonianza sulla fedeltà e onestà di una donna violentata. Nel testo ricorre poi la bella espressione secondo cui il diacono deve «essere in tutto come l’occhio della Chiesa».

L’espressione si riferisce non all’occhio di un guardiano, ma piuttosto alla sensibile percezione della sofferenza e del bisogno resa possibile da un’autentica prossimità e soli­darietà fraterna. Così l’occhio del diacono allarga continuamente l’orizzonte della Chiesa, fiuta la sofferenza e i bisogni negli angoli più nascosti della comunità e ai suoi confini. Ovunque nella realtà delle nostre comunità vi sono zone oscure e zone luminose. La funzione edificatrice della comunità propria del diacono consiste non da ultimo nel fatto di scorgere la sofferenza e il bisogno e, per quanto possibile, di portare ovunque concretamente, e rendere visibile, agli uomini la misericordia di Gesù Cristo. La sua particolare responsabilità per i viandanti e gli stranieri, nonché i senza patria, rende presenti alla comunità dei bisogni assolutamente attuali. Il papa conclude il messaggio ricordandoci «che i poveri sono in mezzo noi. Come sarebbe evangelico se potessimo dire con tutta verità: anche noi siamo poveri, perché solo così riusciremmo a riconoscerli realmente e farli diventare parte della nostra vita e strumento di salvezza» (n.9).
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