44 anni fa la morte. Montini e il bene della povertà, un testo inedito

Il futuro Paolo VI in alcuni schemi per le Conferenze della San Vincenzo affronta il tema dei «beni terreni» Non solo «limitazione dei bisogni», ma anche «l’uso sobrio delle risorse»
Un giovane Giovanni Battista Montini al suo tavolo di lavoro, nel 1923, alla nunziatura apostolica di VarsaviaUn giovane Giovanni Battista Montini al suo tavolo di lavoro, nel 1923, alla nunziatura apostolica di VarsaviaUn giovane Giovanni Battista Montini al suo tavolo di lavoro, nel 1923, alla nunziatura apostolica di Varsavia

Un giovane Giovanni Battista Montini al suo tavolo di lavoro, nel 1923, alla nunziatura apostolica di Varsavia – Archivio Istituto Paolo VI

Una manciata di fogli autografi che riportano schemi per le Conferenze della San Vincenzo. Un testo inedito dal titolo “Beati pauperes” scritto prima del 1936 quando l’autore – Giovanni Battista Montini- era minutante nella Segreteria di Stato vaticana, insegnava storia della diplomazia pontificia all’Apollinare, teneva corsi a diversi gruppi, destinatari di proposte educative dove al primato della coscienza si accompagnava quello della carità nella vita cristiana.

Lo scritto, custodito negli archivi dell’Istituto Paolo VI di Concesio che lo pubblica con un commento del suo presidente don Angelo Maffeis nel nuovo “Quaderno”, costituisce una riflessione davvero profonda non solo avvitata alla formulazione di Luca meno precisa di quella di Matteo.

In essa, il futuro Pontefice del quale oggi si ricorda il 44° anniversario della morte (avvenuta a Castel Gandolfo la sera del 6 agosto 1978), partendo da considerazioni sul «valore dei beni» arriva alla fine associando al discorso sulla povertà evangelica la libertà, a quello sulla povertà di spirito l’obbedienza. Innanzitutto però – nota Montini – a interessare più di tutto è la considerazione dei beni alla luce del Vangelo, indicativa nel rivelare l’identità stessa del discepolo di Gesù. Il quale, si veda lo stralcio in questa pagina è «colui che deve diventare per gli altri sale e luce, un vangelo vivente» e, per questa ragione «non deve preoccuparsi, anteponendo le necessità della vita terrena a quelle del servizio evangelico».

Richiamato l’ideale evangelico, il testo prosegue interrogandosi sulla sua reale applicazione: riscontrando nella comunità credente non solo il distacco dai beni terreni, ma persino avidità complice di ingiustizie. Cosa riscontrabile in secoli di storia, all’origine di vasti patrimoni di istituti caritativi le cui amministrazioni non sono esenti da rischi quanto ad «astuta ricerca delle ricchezze». Se il criterio è quello della povertà evangelica, il fine buono perseguito legittima qualsiasi mezzo per accrescere i beni? No, risponde Montini: ribadendo che Gesù esorta ad una continua conversione dello spirito, definendo poi le rinunce contemplate dalla povertà insieme al suo stesso significato.

Povertà dunque come: «limitazione dei bisogni e quindi dell’uso delle cose», «precisazione dei fini buoni», «adattamento ad essi delle cose necessarie», «libertà di spirito e di azione di fronte agli interessi materiali» che «non devono inceppare il libero servizio di Dio; non devono costituire una seconda intenzione del proprio operare»; «tolleranza delle privazioni, onesto e moderato godimento dei beni che Dio manda».

Ma la povertà si declina anche in comportamenti austeri riconducibili all’impegno nel lavoro e all’uso sobrio delle risorse. E non si comprende affatto se ridotta a privazione di beni in questa terra o rinuncia ad essi, perché fondata sul riconoscimento di beni superiori. Insomma: «la povertà dei beni terreni non è possibile senza la ricchezza dei beni celesti» e comporta «uno spostamento dello spirito, dalla terra al cielo»: un riorientamento dell’esistenza.

Non è tutto. Montini aggiunge che la povertà è «condizione per il dono», «carità in azione». Compresa in questo modo, la povertà si trova «in Dio stesso, che è Carità, che vive in se stesso in relazioni sussistenti, e che venendo a noi si dà come Padre, come Redentore, come “Dono di Dio”…». Approfondito il tema del rinnegamento di sé legato alla scelta della povertà, nella consapevolezza di impulsi umani spesso prevalenti – sottolinea Maffeis – il futuro Papa menziona la virtù dell’obbedienza che nella rinuncia alla propria volontà riconosce la via verso la povertà di spirito.

Citando sant’Ignazio, Montini sottolinea che l’obbedienza a Dio ci rende “indifferenti” «nei riguardi d’ogni vincolo che non venga da Dio». Si tratta di una libertà che si configura ottima preparazione all’azione, e che, se determinata dall’obbedienza a Dio, si esprime in pienezza concorrendo con umiltà ai suoi disegni, spiega Montini. Armonizzando poi obbedienza e libertà nella figura del figlio dove i due elementi sono uniti. Ed è ancora Maffeis a rimarcare nei passaggi di questo testo, spunti sulla natura e la missione della Chiesa, ripresi successivamente da Paolo VI. Anche con differenti soluzioni.

Se da pontefice indicherà nelle riforme la risposta alle infedeltà della Chiesa, qui, invece, la sua raccomandazione è sopportare la tensione tenendo insieme le dimensioni opposte nella realtà della chiesa, senza scandali.

Per monsignor Montini l’unità rimane il valore più grande: «per gravi che siano gli inconvenienti della disciplina ecclesiastica, mai saranno né così gravi né così spiacevoli quanto sono grandi e meravigliosi i beni ch’essa garantisce».

«Libertà e obbedienza – sintetizza il presidente dell’Istituto Paolo VI – rappresentano dunque i due atteggiamenti spirituali opposti, che corrispondono al paradosso di una Chiesa depositaria dei misteri divini e, insieme, segnata dal limite e dai fallimenti umani». Paradosso che anche oggi continua a costituire una sfida continua nella vita della Chiesa.

Il testo autografo​

Così nei suoi appunti: «Dio è da amare con tutte le forze; perciò la vita umana primeggia su ogni altro bene»

Pubblichiamo la trascrizione della pagina di appunti di Giovanni Battista Montini, pubblicata qui accanto. Il tema è quello del «pensiero del Maestro».

Il pensiero del Maestro.

– a) La gerarchia dei beni: in sé e o relativamente a noi: il Vangelo vuole che il valore assoluto degli esseri sia più considerato di quello a noi relativo. Perciò Dio è da amare con tutte le forze; perciò la vita umana primeggia su ogni altro bene; perciò gli esseri sono cari per quanto ci parlano di Dio (principio questo dell’estetica evangelica), ecc.

– b) La utilità delle cose. Non è come noi siamo portati a considerarla. Essa intanto non è una “necessità” se non subordinata ad altre ben più importanti (non in solo pane … quaerite primum … abundantia hominis …). Di più le cose sono utili se ridotte alla soddisfazione di bisogni elementari (cfr. Tolstoj). Ed anche per questo il discepolo, cioè colui che deve diventare per gli altri sale e luce, un vangelo vivente, non deve preoccuparsi, anteponendo le necessità della vita terrena a quelle del servizio evangelico: una fiducia stragrande nella Provvidenza deve consentire un sistema di vita rischioso, liberissimo, assolutamente disinteressato. Né queste necessità sono misconosciute, né la loro soddisfazione interdetta, ma solo la ricerca di tale soddisfazione è fatta remota, e quasi tolta dalle preoccupazioni del ministro evangelico, a cui per altra via che non per il lavoro e il guadagno e il risparmio è dato provvedere al suo mantenimento (dignus est operarius …)

– c) L’illusione umana è quella di credere che l’uomo valga per quanto possiede e dispone nell’ordine materiale e temporale. Essa rappresenta una inclinazione rinascente in ogni condizione e dopo ogni rinuncia (cfr. Giuda). La povertà è quindi cosa dura e facilmente ammissibile, che solo l’aiuto di Dio può rendere sostenibile – d) Il fondamento religioso. Cioè: rapporti della povertà con la carità (cfr. Zundel). – e) Premio della povertà, qui e in futuro.
Giovanni Battista Montini